Recensione di Gianluca Arena – Gameplay e Montaggio Simone Segatori
Quando un titolo si fa attendere più del dovuto, dopo proclami roboanti, il pubblico si divide, generalmente, in due fazioni opposte: l’una tende a perdere interesse, subissata com’è dalla grandissima quantità di titoli che inonda il mercato ogni mese, e l’altra, invece, dopo lo scoramento iniziale all’annuncio del rinvio, continua a seguire il gioco, a cercare ossessivamente informazioni in rete, facendo aumentare, nel processo, l’hype e la salivazione.
Complici le difficoltà della console ospite, Quantum Break, in grosso ritardo sulla tabella di marcia, si candida ad essere una delle esclusive (console) più attese del 2016, e, allargando il discorso, uno dei prodotti che segneranno l’anno videoludico, indipendentemente dalla console posseduta.
Dopo averne sviscerato la storia, i personaggi, le sparatorie, siamo pronti a raccontarvi della parabola di Jack Joyce e Paul Serene, e del motivo per cui non dovreste lasciarvi scappare uno degli esperimenti narrativi più brillanti degli ultimi anni.
Se dovessimo usare un solo aggettivo per definire Quantum Break, probabilmente sceglieremmo “ambizioso”: il titolo Remedy non ha paura di prendersi dei rischi, perché alcuni giocatori potrebbero non gradire un focus tanto evidente sulla narrativa e una struttura che prevede la visione di quattro puntate del serial televisivo collegato al gioco per ogni playthrough.
A conti fatti, però, come molti dei prodotti che non hanno paura di osare, l’ultima fatica dei Remedy non solo raggiunge gli obiettivi che il team di sviluppo si era prefissato, ma setta nuovi standard nell’ambito della narrazione in ambito videoludico.
Nei panni di Jack Joyce, andato via da Riverport da diversi anni dopo la morte dei genitori e la spaccatura con il fratello William che ne deriva, il giocatore sarà richiamato a casa da una serie di mail di Paul Serene, amico d’infanzia, che chiede aiuto a Jack per un non meglio precisato progetto.
L’incontro avviene in una sala di ricerca dell’università dell’immaginaria cittadina americana, alle quattro del mattino, e rappresenta la scintilla che accende una miccia troppo corta: ci sono di mezzo un’invenzione capace di cambiare per sempre la storia dell’umanità, viaggi nel tempo e la cupidigia umana, ma anche molto di più.
Ridurre l’intreccio all’ennesima rivisitazione degli effetti dell’interruzione del continuum temporale sarebbe un errore madornale: Quantum Break si regge su personaggi memorabili, sui volti di attori noti al pubblico (su tutti quelli di Aidan Gillen e Dominic Monaghan), su prove recitative di spessore anche da parte dei comprimari, su un doppiaggio di qualità finissima.
Senza nemmeno accorgersene, il giocatore viene risucchiato in un vortice di emozioni incredibili, cementate dal fatto che, alla fine di ognuno dei cinque atti che compongono il gioco, sarà chiamato a fare una scelta di fondamentale importanza per il prosieguo della narrazione, nei panni dell’antagonista principale, Paul Serene: a seconda della strada intrapresa tra le due possibili, assisterà poi ad una puntata del serial TV, della durata di circa venticinque minuti, deputata a condurre gli eventi fino all’atto successivo.
La godibilità della serie TV è pari a quella di qualsiasi prodotto scaricabile dai più diffusi servizi a pagamento (pensiamo a Netflix e compagnia), grazie ad un budget generoso e ad una regia impeccabile, che incidono notevolmente sul legame empatico che si sviluppa tra il giocatore e i personaggi su schermo, mai così vividi e credibili.
L’esperimento narrativo, quindi, non può che dirsi riuscito, e, in futuro, non ci dispiacerebbe vedere questo tipo di ibridazione prendere sempre più piede in ambito videoludico, senza per questo inficiare il versante prettamente interattivo.
Quando si riprende il pad in mano dopo una delle puntate della serie TV inclusa nel pacchetto, Quantum Break propone sì un gameplay familiare a chi ha giocato almeno un paio di sparatutto in terza persona nel corso dell’ultimo lustro, ma lo fa portando in dote la frenesia, la velocità e la peculiarità dei poteri temporali del protagonista, che rendono il titolo Remedy molto diverso dalla grande maggioranza dei suoi congeneri più recenti.
Approcciare le avventure di Jack Joyce pensando di ripararsi dietro una delle superfici disponibili significa mancare completamente il bersaglio: se si vuole avere speranza di proseguire lungo la campagna, bisognerà affrontare le orde di nemici in maniera molto più aggressiva, danzando sul campo di battaglia come un ballerino di flamenco e facendo ampio uso dei cinque poteri di cui il protagonista è attrezzato.
Questi vanno dalla possibilità di creare bolle temporali che proteggono dai proiettili, a quella di percorrere lunghe distanze in un istante, passando per la creazione di un piccolo buco nero a mezz’aria, capace di danneggiare consistentemente tutti i nemici nel suo raggio d’esplosione: ognuna di queste abilità ha un suo tempo di ricarica, che varia a seconda di quanto si è scelto di potenziarla nell’apposito menu.
Combinare due o più poteri servirà non solo a venire a capo degli scontri più impegnativi, contro boss e miniboss capaci di resistere ai poteri di manipolazione del tempo e di teletrasportarsi da un angolo all’altro dei teatri di scontro, ma anche di risolvere semplici enigmi ambientali durante le fasi platform, che occupano comunque solo una frazione del tempo di gioco.
Già allo scoccare della quarta – quinta ora di gioco, il nostro alter ego entrerà in possesso di tutte le versioni base dei poteri, potendo così piegare il tempo (e le sparatorie) al proprio volere: se i primi due atti rappresentano una passeggiata di salute, la difficoltà si irrobustirà a partire dal terzo, soprattutto grazie all’introduzione di nemici molto ben equipaggiati e di un’intelligenza artificiale sempre molto aggressiva, che non disdegna tattiche di accerchiamento e l’utilizzo massiccio di granate per stanare i giocatori più conservativi.
Il costante dinamismo richiesto al giocatore rappresenta una ventata di freschezza rispetto ai ritmi compassati e alla guerra di trincea portati sugli schermi dagli sparatutto in terza persona delle ultime due generazioni di console, e aumenta consistentemente il tasso di adrenalina: molto difficilmente verrete a capo di un gruppo di nemici senza fare un utilizzo intensivo dei poteri del protagonista e senza aver cambiato posizione numerose volte.
Questa scelta di game design si riflette, purtroppo, anche nell’inefficacia del sistema di coperture, probabilmente una delle poche cose che avrebbero meritato ulteriori raffinamenti: le coperture sono gestite in automatico dal motore di gioco in maniera imprecisa, tanto che spesso il nostro protagonista lascia esposte parti del corpo (a volte un gomito, a volte una gamba) e prende un paio di colpi in maniera del tutto gratuita.
Seppure bilanciata dalla rigenerazione automatica della salute, questa cosa non ci ha soddisfatto, ma, considerati i ritmi forsennati e l’impossibilità di rimanere comunque in copertura per lunghi tratti, questo difetto non mina in maniera eccessiva l’esperienza di gioco.
Anche la varietà e il feedback delle armi sono buoni ma non eccellenti, e stonano un po’ con il livello qualitativo raggiunto in tanti altri comparti, ma il focus delle sparatorie è nettamente sui poteri del protagonista, e le bocche da fuoco risultano spesso un riempitivo in attesa della fine dell’intervallo di cooldown delle abilità.
Marchi di fabbrica dei prodotti Remedy, come le abilità di rallentamento del tempo e il ritmo forsennato degli scontri a fuoco, insomma, sono non solo presenti in Quantum Break, ma contribuiscono a farne un TPS diverso dal solito e decisamente forsennato.
Se avete letto delle polemiche riguardo la risoluzione del gioco e il fatto che non venga raggiunta la qualità full HD che ci si aspettava da questa generazione, fatevi un favore e chiudete il vostro browser (dopo aver letto questa recensione fino in fondo, ovviamente): è vero che Quantum Break non gira a 1080p, o quantomeno non lo fa sempre, ma la cosa non ne sminuisce né la bellezza né la godibilità.
Il team di sviluppo, preso atto delle difficoltà della console Microsoft nel gestire la risoluzione in full HD se accompagnata a giochi con un motore grafico imponente, ha semplicemente optato per una serie di compromessi, primo tra i quali proprio quello di abbassare la risoluzione, che varia a seconda dell’azione su schermo e delle sezioni di gioco: succede lo stesso anche con un artificio che permette di scalare la qualità delle texture a seconda della distanza della visuale da esse.
Capita così che un oggetto in lontananza risulti meno definito e dettagliato di quanto non sia se ci si avvicina e lo si osserva a poca distanza: questo non succede solo in Quantum Break ma in tanti titoli dell’attuale generazione di console, tanto su Xbox One quanto su Playstation 4, che pure si è dimostrata capace di gestire situazioni più complesse.
Se da un lato, quindi, visti i valori produttivi e il budget faraonico a disposizione, era lecito attendersi il massimo, è pur vero che queste aspettative non devono offuscare la capacità di giudizio e la realtà dei fatti, e cioè che il titolo Remedy è sicuramente uno dei più belli da vedere dell’intero catalogo dell’ammiraglia Microsoft.
Questo perché, accanto ad una modellazione poligonale di prim’ordine, ci sono delle performance solidissime, con un framerate molto stabile sui 30 fps anche quando l’azione a schermo si fa caotica, antialiasing a volontà che ripulisce l’immagine, effetti di luce particolarmente spettacolari e un buon livello di distruttibilità delle ambientazioni.
Se, quindi, ci si lamenta a prescindere perché dalle due console sul mercato ci si aspettava, aldilà dalle specifiche, sempre l’accoppiata 1080p e 60 fps, Quantum Break rinfocolerà queste (sterili) polemiche; se, al contrario, ciò che conta per l’utenza è godere di uno spettacolo visivo di prim’ordine, capace di accompagnare adeguatamente la storia ed il gameplay, allora le avventure di Jack Joyce e Paul Serene verranno ricordate come uno dei prodotti che meglio hanno sfruttato l’hardware a disposizione.
Chiosa finale per la durata complessiva, che si attesta sulla ventina scarsa di ore se vorrete esplorare ognuna delle possibili ramificazioni narrative previste dal titolo, circa la metà se invece vi accontenterete di vedere i crediti finali una sola volta (pro-tip: non staccate gli occhi dallo schermo finché non sarete riportati alla schermata principale).
Se possedete una Xbox One (o un PC ben equipaggiato) e nutrite anche solo un flebile interesse nei confronti della narrativa, Quantum Break è un acquisto obbligato, perché alza notevolmente l’asticella dello storytelling in ambito videoludico e contamina due media complementari ma diversi come nessuno aveva mai fatto prima.
In realtà potreste farlo vostro anche solo se amate gli sparatutto in terza persona, ma a condizione che sia chiaro che l’intento dei Remedy era quello di raccontare una storia, di sviscerare protagonisti, di rapire il giocatore/spettatore per una decina di ore: l’intento è pienamente riuscito, e il voto non può non riflettere il successo di questo ambizioso esperimento.
This post was published on 1 Aprile 2016 11:00
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