Recensione di Gianluca “DottorKillex” Arena
Dapprima atteso come araldo della nuova generazione di console, con un trailer che lasciò tutti a bocca aperta un paio di E3 fa, poi vituperato a causa di un presunto downgrade grafico, Tom Clancy’s The Division è finalmente arrivato sui nostri schermi, con un carico di aspettative niente male e la promessa di ricreare una New York oscura e malata.
Ubisoft punta molto sulla forza dirompente di questo titolo, forte di un’ambientazione dal grande fascino e di un gameplay che, sulla carta, dovrebbe mescolare sapientemente le dinamiche di un MMO, di un gioco di ruolo e di uno sparatutto in terza persona: dopo diverse ore tra i vicoli deserti di una città devastata, siamo pronti a raccontarvi la nostra esperienza come membri della Divisione.
Alla stregua di molti altri titoli che hanno tratto ispirazione dagli scritti di Tom Clancy, la premessa narrativa alla base di The Division è intrigante, sebbene descriva uno scenario, quello catastrofistico/epidemico, molto utilizzato nel corso delle ultime due generazioni di console.
Un non meglio identificato gruppo terroristico, infatti, decide di sfruttare l’enorme circolazione di banconote che avviene ogni anno negli Stati Uniti in concomitanza con il Black Friday (l’ultimo venerdì di novembre, durante il quale prodotti di consumo vengono fortemente scontati dai rivenditori) per infettare una partita di esse con una versione potenziata del vaiolo: ciò che ne scaturisce, ovviamente, è il caos, soprattutto nelle grandi città.
Pensata proprio per situazioni simili, ad entrare in gioco c’è una task force segreta, alle dirette dipendenze del Presidente degli Stati Uniti, composta di agenti elite pronti a tutto per riportare l’ordine: la Divisione.
Il giocatore vedrà il suo orologio speciale chiamarlo in prima fila, e, raggiunta Brooklyn, dovrà scendere in campo e sporcarsi le mani, visto che l’isola di Manhattan, dove si svolgeranno le missioni della trama, è sprofondata nell’anarchia, con bande armate che saccheggiano, uccidono, stuprano.
Al netto di una sequenza iniziale adrenalinica, e dell’incontro con un altro membro della Divisione con il quale si svilupperà un rapporto di amicizia con il prosieguo della trama, gli eventi narrati in The Division non si rivelano memorabili, perché, nonostante la forte impronta ruolistica della produzione, l’incedere degli eventi è macchinoso, su binari, senza sorprese, con un paio di colpi di scena un po’ telefonati e un gran numero di dialoghi scarsamente pregnanti, che non aiutano ad immergersi nel mondo di gioco.
Fortunatamente, a catturare il giocatore ci sarà una riproduzione eccelsa della Grande Mela: ricoperta da una coltre di neve, macchiata dal sangue degli innocenti, popolata di veicoli abbandonati e barricate di fortuna, la New York portata in scena dai ragazzi di Massive Entertainment è magnetica, e rappresenta una delle ambientazioni più affascinanti viste durante l’attuale generazione di console.
Il fatto che l’esplorazione di essa porti in dote collezionabili ed armi rare, sparse per i tetti e negli interni (invero tutti molto simili tra loro), non è che un ulteriore incentivo a dedicare qualche minuto al semplice girovagare, soprattutto durante le prime ore di gioco.
Quando si scende in strada e si mette mano alle bocche da fuoco, The Division rimescola sapientemente elementi provenienti da diverse saghe recenti, ma riesce a dar loro una connotazione personale, creando un mix sostanzialmente unico nel suo genere, che funziona a meraviglia, sebbene non sia esente da difetti.
Mass Effect 3 (per l’incrocio tra dinamiche da gioco di ruolo e sparatutto in terza persona), Destiny (per la sovrastruttura da MMO e il mondo persistente) e Borderlands (per il peso del loot e delle statistiche) sono solo tre dei nomi che tornano alla mente: il prodotto Massive Entertainment è, di base, un gioco di ruolo, esattamente come Ubisoft ci aveva promesso, che sostituisce alla consuete dinamiche a turni delle sparatorie in tempo reale, non dissimili da quelle di un qualsiasi Gears of War, seppure con un minore senso di fisicità.
A fare la differenza, però, non sarà tanto la precisione balistica del giocatore, quanto piuttosto il loadout del protagonista, la scelta delle armi e delle loro modifiche e le statistiche che si è scelto di potenziare, con un gran numero di abilità attive e passive sbloccabili ampliando la base strategica all’interno di Manhattan.
Se, a prima vista, il gioco non differisce poi molto da qualsiasi third person shooter a base di coperture uscito negli ultimi dieci anni, sottopelle le differenze sono molteplici: i nemici assorbono un numero esorbitante di proiettili prima di soccombere, perché il sistema che gestisce i danni è governato dalle statistiche di attacco e fdifesa, alla maniera di un gioco di ruolo e non di uno sparatutto, e, di conseguenza, la soddisfazione che si ricava da una nuova bocca di fuoco non è immediata, ma si avverte piuttosto sul lungo periodo.
Come nell’ibrido creato da Gearbox anni fa, le armi sono divise per colori e per statistiche, richiedono un livello minimo per essere equipaggiate e sono modificabili dal giocatore, che può aggiungervi mirini, calci, caricatori, perfino decalcomanie: insieme ai sei diversi pezzi di armatura indossabili, questo elemento rappresenta ciò che maggiormente avvicina The Division ad un qualsiasi GDR presente sul mercato.
Il livello di personalizzazione è stupefacente, e, ad eccezione dell’editor iniziale, davvero povero, il giocatore ha a disposizione migliaia di possibili combinazioni, che vanno a sostituite le build nel senso più classico del termine, visto che non è presente una suddivisione in classi. Se si entra nel cosiddetto “Diablo loop”, in cui ci si affanna alla ricerca delle armi più rare, anche a costo di ripetere ossessivamente le stesse missioni per decine di volte, The Division può sforare senza troppe difficoltà la barriera delle cento ore di gioco, tra single e multiplayer.
Pur essendo evidentemente pensato per la cooperativa, con un matchmacking assai efficiente che accoppia fino a quattro giocatori, il titolo Massive Entertainment ha imparato la lezione di Destiny, che uscì nel settembre 2014 con una quantità di contenuti abbastanza risicata: tra missioni principali (una quindicina), missioni secondarie, incontri e istanze casuali, anche il più solitario tra i giocatori difficilmente ricaverà meno di una ventina abbondante di ore di gioco.
Alla luce di questo, e di elementi come la pulizia del codice (mi sono imbattuto in un solo bug, peraltro ininfluente ai fini del gameplay, in oltre trentacinque ore di test) e la bontà dell’infrastruttura di rete, che ha retto benissimo all’assalto dei primi giorni, non si può non applaudire Ubisoft, che, dopo gli imbarazzi al lancio di Assassin’s Creed Unity, dimostra di aver fatto tesoro delle esperienze passate e di essersi rimboccata le maniche.
Considerati tutti questi pregi, allora, cos’è che impedisce al titolo Massive Entertainment di raggiungere vette ancora più alte? In una sola parola, la ripetitività.
Esattamente come già successo al succitato titolo Bungie, se la struttura a missioni si rivela assai soddisfacente sul breve periodo, già all’alba della decina di ore di gioco comincia ad accusare una generale mancanza di varietà non solo negli obiettivi da portare a termine, ma anche nelle tipologie di nemici da affrontare, nelle aree in cui avvengono gli scontri a fuoco e, finanche, nel feeling delle armi, con una somiglianza piuttosto marcata tra tutte le armi automatiche presenti nel gioco.
Così, missione dopo missione, scema l’entusiasmo, delegando alla sola Zona Nera un minimo di varietà rispetto alla formula solita: sebbene questo sia un difetto endemico, il suo peso non è trascurabile per quanti decideranno di spendere decine di ore nella New York malata del titolo, tra partite in solitaria ed altre giocate con un gruppo di amici, che rimangono, manco a dirlo, i momenti migliori della produzione, grazie ad un teamwork ben realizzato e alla possibilità di tradire i propri compagni proprio sul più bello.
A testimonianza di come la rete sia una brutta bestia, pronta a condannare in maniera spesso manichea, uno degli aspetti che maggiormente mi ha soddisfatto di The Division è quello tecnico, al centro della bufera per il presunto downgrade avvenuto rispetto al trailer di lancio datato 2013.
Giocato su Xbox One, la meno performante delle tre piattaforme su cui il gioco è disponibile, il titolo Massive Entertainment si difende benissimo: mosso dallo Snowdrop Engine, graziato da un sistema meteo dinamico assai convincente e da un ciclo giorno notte già oggetto di diversi “time lapse trailer”, The Division immerge il giocatore in una New York estremamente dettagliata, lasciandolo libero all’interno di una mappa che, per una volta, non punta tutto sull’estensione quanto, semmai, sulla cura per i particolari e sulla verosimiglianza di determinate location.
La modellazione poligonale è ricca e sfaccettata, i trenta frame per secondo molto stabili, le texture di superficie dettagliate e credibili, e, in generale, la sensazione di trovarsi realmente nella Grande Mela a poche settimane dal Natale è palpabile.
Gli unici nei, allora, sono da ricercare nel caricamento ritardato di alcune texture dopo un fast travel o una cutscene, fenomeno ricorrente ma mai veramente impattante sulla cosmesi, e la scarsa distruttibilità degli ambienti, che rispondono poco (ed in maniera non sempre convincente) alle sollecitazioni derivate da proiettili, esplosioni ed impatti assortiti.
Molto bene anche il doppiaggio in italiano, che alterna voci famose (come quella di Francesco Pannofino) ad altre meno note ma ugualmente sul pezzo, tipiche di produzioni dal budget significativo come questa made in Ubisoft: l’effetto cinematografico, insomma, è assicurato.
Chiudo questa disamina con la speranza che il futuro sia gentile con questo titolo, come d’altronde le informazioni fatte trapelare da Ubisoft e dal team di sviluppo lascerebbero intendere: il primo anno sarà punteggiato dal rilascio puntuale di contenuti (tanto gratuiti quanto a pagamento), ma, vista l’attuale situazione in cui versa Destiny, c’è da augurarsi che The Division venga supportato anche oltre i prossimi dodici mesi: la bontà del progetto meriterebbe lo sforzo.
Sminuito solamente dal senso di ripetitività che incombe sul giocatore dopo qualche ora di gioco e da un endgame al momento ancora avvolto nella nebbia, The Division si conferma come un progetto assai ben realizzato, ambizioso e dotato di grande carisma, decisamente migliore se fruito in compagnia di tre amici ma perfettamente godibile anche in single player, o servendosi dell’efficiente matchmaking.
La quantità di contenuti, la stabilità del motore grafico e delle infrastrutture di rete, la splendida riproduzione di una Grande Mela sconvolta dai tumulti sono solo alcune delle frecce nell’arco del prodotto di Massive Entertainment, che si candida ad essere uno dei prodotti più giocati di questo 2016.
Se il supporto nei prossimi mesi sarà quello promesso in fase di lancio, ci sarà da divertirsi.
This post was published on 14 Marzo 2016 10:42
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