Articolo a cura di Gianluca “DottorKillex” Arena
Uscito sul suolo giapponese oltre dodici mesi fa, e accompagnato da voti lusinghieri e dall’entusiasmo dei fan, arriva finalmente anche in Europa il quinto capitolo regolare della saga di Project Zero (nota negli Stati Uniti con il titolo di Fatal Frame), sottotitolato, in maniera inquietante, Maiden of Black Water.
L’attesa era spasmodica per un duplice ordine di motivi: da un lato l’utenza WiiU è a digiuno di titoli di rilievo da qualche settimana, e dall’altro i survival horror vecchio stile ormai scarseggiano sul mercato.
Acqua sporca
Pur piena di cliché tipici del sovrannaturale di matrice nipponica, portato alla ribalta da film come The Ring e The Grudge, la trama dietro Project Zero Maiden of Black Water riesce nell’intento di costruire un castello di incubi, situazioni spiacevoli e morti assurde, all’interno del quale anche il giocatore più scafato faticherà a trovarsi a suo agio.
Più che la paura, se si escludono una manciata di jump scare disseminati lungo la campagna, la compagna di viaggio è l’inquietudine, derivata non solo dai temi trattati (e in questo senso mi sorprende positivamente il supporto di Nintendo) ma anche dall’atmosfera che si respira sin dal prologo, in cui il giocatore veste i panni di un’ignara giovane, che poi scopriremo chiamarsi Haruka, che si sveglia in una grotta buia e umida, popolata di spiriti maligni che, in men che non si dica, si stringono intorno a lei.
Le protagoniste dei capitoli successivi sono Yuri Kozukata e Miu Hinasaki, due ragazze in contatto con il mondo degli spiriti, capaci di sentire e vedere ciò che a tutti gli altri è precluso, ma non mancherà l’apporto di una figura maschile, in un titolo a forte vocazione femminile, e cioè quella di Ren Hojo, scrittore curioso tormentato da uno spaventoso quanto vivido incubo ricorrente.
Il centro focale è il monte Hikami, labirinto di alberi secolari, ruscelli che sfociano in un laghetto interno e, soprattutto, anime in pena, vincolate a questo bosco e alle sue acque da morti tragiche e violente.
Se i primi capitoli sembrano apparentemente slegati l’uno dall’altro, tenuti insieme solamente da questa inquietante location, le vicende si annodano progressivamente in maniera naturale, i personaggi guadagnano spessore man mano che se ne conoscono le vere motivazioni, e il finale (doppio) chiude un cerchio maledetto, che, pur intriso di cultura nipponica, riesce a far presa anche sul pubblico occidentale, forte di emozioni che vanno oltre le barriere culturali.
Tank controls
Le meccaniche di gioco che governano Maiden of Black Water non si discostano in maniera sensibile da quelle che hanno contribuito a costruire le fortune di una saga tra le più amate tra gli appassionati di survival horror, e, come tali, divideranno in due il pubblico, tra coloro che bramano da anni un titolo che si poggi sui canoni classici di un genere in via d’estinzione, e quanti, invece, troveranno inaccettabili una serie di scelte di game design fuori dal quadro tracciato dal mercato odierno.
La prima cosa a balzare immediatamente all’occhio, GamePad alla mano, è la scarsa mobilità del nostro alter ego a schermo, e la macchinosità di azioni anche semplici come il voltarsi o il correre via da un pericolo: la scelta è voluta, e l’esasperante lentezza dei personaggi controllabili dal giocatore accresce il senso di inquietudine e di pericolo che pervade tutto il gioco, ma di certo non farà la felicità delle generazioni più giovani, abituate a tutt’altro control scheme.
Ogni porta richiede diversi secondi per essere aperta, non v’è traccia di interazioni ambientali contestuali, e voltarsi, pur rimanendo sul posto, è molto più macchinoso di quanto si possa pensare: tutti elementi canonici per chi ama i survival horror, ma che, a pochi mesi dal 2016, pochi team di sviluppo (e, ancora più, pochi publisher) hanno il coraggio di riproporre.
Il lavoro svolto da Koei Tecmo e Nintendo è invece ammirevole, e riporta con la mente ai classici del genere, dai primi due Resident Evil a Silent Hill, passando per titoli meno conosciuti (ma non meno validi) come Haunting Ground: Maiden of Black Water è un titolo a cui interessa prima di tutto raccontare una storia e far sì che questa entri sottopelle al giocatore, e per ottenere questi suoi scopi non esita a limitarlo e metterlo in costante inferiorità.
A bilanciare controlli tanto macchinosi c’è una difficoltà generosa, con un gran numero di oggetti rinvenibili sul campo e la possibilità, prima di ogni capitolo, di portarsene dietro quanti se ne preferisce, al costo di rinunciare ai punti bonus elargiti a fine livello, utili per rafforzare la Camera Obscura.
La camera fotografica paranormale, come in passato, rappresenta il fulcro dell’azione, nonché l’unico baluardo a frapporsi tra il giocatore e l’esercito di aberrazioni fantasma che si troverà a fronteggiare: l’utilizzo del GamePad per inquadrare i bersagli e immortalarli su pellicola è di pregevole fattura, secondo solo, in ambito horror, a quello che ne fece ZombiU al lancio della console Nintendo.
Settata a dovere la sensibilità dei giroscopi secondo l’esigenza personale di ogni giocatore, spostare lo sguardo sullo schermo del paddone risulterà un’azione rapida e naturale, necessaria ad esorcizzare gli spettri, che avranno l’antipatica abitudine di attaccare in massa e di farlo da ogni angolazione possibile: sebbene non si giunga mai a momenti di vera difficoltà, la velocità nello scorgere i mostri e il tempismo nel fotografarli risulteranno fondamentali, tanto quanto un’oculata gestione delle pellicole più potenti, disponibili in numero assai limitato.
A parte qualche puzzle poco riuscito e un certo riciclo di alcune ambientazioni, assai evocative ma anche troppo presenti, non vi sono lacune consistenti nell’offerta ludica imbastita da Koei Tecmo e Nintendo, e la dozzina di ore necessarie a dipanare l’incubo proposto da Maiden of Black Water risulteranno assai piacevoli, nonostante la profonda tristezza dei temi trattati.
Free to start e altro
Consci del ritardo nella localizzazione europea, dell’appeal limitato che un survival horror puro potrebbe avere sul grande pubblico (purtroppo, aggiungerei) e del fatto che il comparto tecnico rappresenti probabilmente il lato più debole della produzione, Nintendo e Koei Tecmo hanno rilasciato una corposa demo su eShop, tramite la quale i giocatori possono provare i primi capitoli della storia, per poi, in caso di gradimento, acquistare tutto il resto del pacchetto direttamente dai menu in-game.
Una tale formula di vendita, flessibile e cristallina, non può che giovare ad un prodotto di per sé valido ma di certo non adatto a tutti, e mi piacerebbe vedere in futuro, non solo su console Nintendo, un maggiore impiego di un modello simile.
Detto della buona longevità, coadiuvata dalla possibilità di rigiocare i capitoli completati alla ricerca di una migliore valutazione, meritano una menzione meritoria anche la colonna sonora, intimista ed angosciante, e il doppiaggio, soprattutto in caso si opti per l’originale giapponese, ancora più incisivo della controparte anglosassone.
Il reparto visivo, sorretto da una direzione artistica ispirata e dall’attenzione per i modelli poligonali dei protagonisti delle vicende, è comunque vittima di una notevole quantità di aliasing, di troppe texture in bassa definizione e di un comparto animazioni arcaico almeno quanto alcune delle scelte di game design implementate.
Non che WiiU si sia mai segnalato per performance impeccabili dal punto di vista meramente tecnico, ma Maiden of Black Water non esce benissimo dal confronto diretto con l’altro grande titolo invernale della console ospite, quello Xenoblade Chronicles X tanto atteso dai fan.
Commento finale
Project Zero Maiden of Black Water dividerà critica e pubblico come pochi altri titoli nella ludoteca di WiiU, perché ha il coraggio di proporre stilemi tipici dei survival horror di un decennio fa, raccontando una storia non originalissima ma sufficientemente inquietante da tenere alta l’attenzione del giocatore.
L’utilizzo del GamePad in luogo della Camera Obscura è intuitivo e ben implementato, e rafforza l’urgenza e la frenesia delle fasi di combattimento, così come non guastano le sottili dinamiche ruolistiche insiste nel rafforzamento e nella differenziazione delle lenti della macchina fotografica.
Un must se siete amanti del perduto genere dei survival horror, ma il consiglio, vista la possibilità di provarlo gratuitamente, è quello di dargli una possibilità a prescindere.