Dragon Age Inquisition – Giudizio Finale

Recensione di Gianluca “DottorKillex”Arena

Dopo le critiche, peraltro eccessive, ricevute dopo i suoi ultimi due lavori, ovvero Mass Effect 3 e Dragon Age II, Bioware era attesa al varco da milioni di videogiocatori, che speravano che Dragon Age: Inquisition tornasse alle origini, rifuggendo le dinamiche decisamente action del secondo capitolo e tornando a concentrarsi su ciò che la casa canadese sa fare meglio: il gioco di ruolo puro.
Eppure, paradossalmente, i fan della serie dovrebbero essere grati alla seconda incarnazione del brand: se non ci fossero stati i passi falsi di Dragon Age II, probabilmente, oggi non ci troveremmo tra le mani uno dei giochi di ruolo più belli degli ultimi anni, sicuramente il migliore attualmente disponibile per le console di attuale generazione.
Tuffiamoci allora nel vasto e brulicante mondo di Inquisition.

Squarci e lotte intestine

Dopo aver sottoposto uno degli editor per la creazione del personaggio più completi ed esaustivi di sempre al giocatore, Dragon Age: Inquisition lo getta in medias res al centro di un conflitto di proporzioni epocali, che potrebbe riscrivere il futuro dell’Orlais, del Ferelden e di tutto il Thedas.
Gli eventi seguono solo di poche settimane la fine di quelli narrati nel secondo episodio: la Divina Justinia, capo spirituale della Chiesa, ha indetto un Conclave, cui parteciperanno i massimi esponenti della Chiesa stessa nonché dei maghi e dei templari, le due fazioni storicamente in lotta nel mondo creato da Bioware.
Sedersi attorno ad un tavolo per appianare divergenze che hanno causato morte e distruzione nei primi due capitoli sarebbe un passo nella giusta direzione, ma, come si dice, il diavolo ci mette la coda, e il Conclave si conclude con un massacro, quando uno squarcio verdastro apertosi in cielo stermina tutti i presenti, decapitando, in un colpo solo, le tre organizzazioni coinvolte.
Sul luogo della carneficina viene ritrovato solo un corpo ancora caldo, quello del nostro alter ego, che reca peraltro uno strano marchio sulla mano, anch’esso verdastro: l’integerrima Cassandra Pentaghast, guardia del corpo della Divina che gli affezionati della saga conosceranno per gli interrogatori di Varric in Dragon Age II, fa presto a fare due più due, e accusa il nostro personaggio di essere il responsabile della strage.
Come lei, tutti gli altri dovranno presto ricredersi, però, perché il marchio sul palmo della mano dello sconosciuto eroe si rivela presto l’unico rimedio per chiudere le centinaia di varchi sull’Oblio che si sono aperti per tutto il Thedas, che continuano a vomitare frotte di demoni sulla popolazione.
Se le premesse e lo svolgimento della storia non sono memorabili, come spesso accade nei titoli della software house canadese sono i protagonisti, le loro personalità finemente cesellate e i rapporti che intessono tra di loro a rapire da subito, aiutati da un mondo vivo, credibile, con centinaia di personaggi non giocanti dotati di pareri, convinzioni e di un doppiatore dedicato.
Il giocatore che vorrà immergersi completamente nel lore del gioco, sia egli un veterano della serie o un nuovo arrivato, avrà a disposizione migliaia di linee di dialogo con scelte multiple, altrettanti testi scritti con una storia e una bibliografia sterminate e, soprattutto, la possibilità di plasmare il mondo di gioco con le proprie azioni: accendere la console (nel nostro caso PS4) sarà come entrare in un mondo alternativo.

Nella direzione opposta

Dopo la valanga di critiche sulle eccessive semplificazioni e sulla mancanza di un mondo di gioco coeso ed esplorabile rivolte al precedente capitolo, Bioware si è mossa con forza nella direzione opposta, provando a tornare ai fasti di Origins e a dare in pasto alla comunità quello che chiedeva: ecco quindi spiegata la straordinaria libertà di cui gode il giocatore, l’immensità della mappa di gioco e un ritorno al micromanagement del proprio party e dell’inventario, veri e propri marchi distintivi delle produzioni della compagnia canadese.
Pur non costituendo un unicum come quello dei giochi Bethesda (Skyrim), il mondo di gioco è suddiviso in macroregioni, di dimensioni variabili ma comunque sempre soddisfacenti e costellate di segreti, missioni secondarie e curiosità da scoprire: già dopo una manciata di ore le singole mappe delle regioni esplorabili saranno costellate di simboli indicanti sidequest, punti di viaggio veloce, villaggi, covi nemici e tanto altro ancora.
Il giocatore potrà accedere al mondo di gioco da un tavolo strategico dal quale potrà gestire anche le operazioni di spionaggio, militari e diplomatiche, ottimizzando così le abilità dei collaboratori dell’Inquisizione.
Quest’organizzazione, che dà il nome al gioco e a capo della quale saremo messi già dalle primissime ore di gioco, accrescerà il livello di coinvolgimento del giocatore: alleato dopo alleato, agente dopo agente, la sensazione di far crescere il proprio seguito è palpabile, e contribuisce a dare senso anche alle quest apparentemente più insignificanti.
Il team di sviluppo ha poi introdotto un valore, il Potere, che aumenterà all’affermarsi dell’Inquisizione, e che sarà necessario per svolgere le missioni della trama principale, ognuna delle quali avrà un costo crescente per poter essere affrontata: se da un lato questa dinamica potrebbe sembrare un modo come un altro per costringere il giocatore ad affrontare un buon numero di missioni secondarie, alla prova dei fatti si rivela invece un metodo efficace per valorizzare l’impressionante mole di contenuti del gioco.
D’altronde, come detto, la qualità media delle quest opzionali è più che soddisfacente, e se un certo numero di “fetch quest” era inevitabile in un titolo con un monte ore che può facilmente sforare il centinaio, non si può non dirsi soddisfatti di molte delle linee narrative secondarie, che sanno catturare come e quanto quella principale.
Anche per quanto concerne il sistema di combattimento, pur senza stravolgimenti clamorosi, si è scelto di muoversi in direzione opposta rispetto alla svolta action del titolo pubblicato nel 2011, quantomeno per il terzo e quarto livello di difficoltà: a Facile e Normale è ancora possibile occuparsi solo del proprio personaggio e lasciare che l’IA gestisca i tre compagni di viaggio, ma già dal livello Difficile (che è poi quello che consigliamo per godersi al meglio il titolo) la visuale tattica rivestirà un ruolo fondamentale.
Alla pressione del touch pad del Dual Shock 4, la visuale di gioco di alzerà a volo d’uccello, consentendo tanto di impartire comandi ad ogni singolo membro del party quanto di avanzare lentamente il tempo, così da gestire l’intero combattimento in modo indiretto, in una sorta di omaggio al mai dimenticato Baldur’s Gate: nessun boss andrà giù senza una serie di accortezze, e, in ogni caso, la mescolanza tra azione in terza persona e combattimento a turni, seppur perfettibile, funziona più che degnamente.
Inspiegabilmente, invece, Bioware ha fatto poco (sia in fase di promozione del gioco, sia con dei tutorial in game) per promuovere l’efficiente sistema di crafting implementato, che permette al giocatore, raccolti i materiali necessari, di forgiare le proprie armi e armature, nonché di modificare quelle rinvenute sul campo o acquistate da uno dei tantissimi mercanti presenti nel gioco: entrare in possesso di alcuni dei materiali più preziosi è un sottogioco in sé, e il titolo tenderà a premiare i giocatori che maggiormente si dedicheranno all’esplorazione, ponendo i filoni di materiali più pregiati negli angoli più reconditi della mappa, spesso guardati a vista da nemici per nulla accondiscendenti.
Tra tanti aspetti positivi, va invece sottolineato come si sarebbe potuto lavorare meglio sui menu e sull’interfaccia generale, che spesso complica inutilmente la vita al giocatore anziché aiutarlo. Doveroso farlo notare, ma parliamo davvero del classico “pelo nell’uovo”.

Frostbite

A fronte di una cura certosina per i dialoghi e i personaggi e di una mole di contenuti incredibile, Dragon Age: Inquisition inciampa sul versante tecnico: non cade , badate bene, ma inciampa in più situazioni, anche se mai tanto da rompere  l’incantesimo che si crea ogni qual volta carichiamo un salvataggio e ci tuffiamo nel suo mondo.
Al netto di qualche scorcio davvero ben fatto, il look generale della produzione EA è sempre sopra la media, ma mai davvero “next gen”, dal comparto animazioni, legnosetto, all’inespressività dei volti dei personaggi, passando per un framerate generalmente stabile ma con qualche eccezione di troppo.
Le attenuanti non mancano, comunque: innanzitutto il gioco è cross gen, fattore che inevitabilmente ne limita le potenzialità grafiche (in questo senso speriamo di avere una svolta col venturo The Witcher 3), e poi il motore che lo muove, il Frostbite, non è proprietario, e quindi, differentemente da altre circostanze, il team di sviluppo non lo conosceva come le sue tasche.
L’impatto generale, su Xbox One e Ps4, è sicuramente molto buono, grazie anche ad una grande varietà di ambientazioni e a una quantità spropositata di NPC contemporaneamente a schermo, ma le aspettative di chi ha scucito oltre quattrocento euro per le nuove ammiraglie di Microsoft e Sony sono ben altre.
Per adesso, Inquisition deve accontentarsi del titolo di capitolo visivamente più bello della serie e delle lodi sperticate che stiamo per fare al suo comparto audio: la quantità di dialoghi doppiati è elevatissima e la qualità del doppiaggio è eccellente.
Nessuna delle voci scelte risulta mai fuori posto e nessuna delle interpretazioni va mai eccessivamente sopra le righe, restituendo scambi di battute credibili e di qualità a tratti cinematografica.
Difficile pronunciarsi sulla longevità: i giocatori più dedicati vedranno il loro monte ore superare facilmente la soglia delle cento, mentre quelli che si dedicheranno alla sola quest principale dovrebbero “cavarsela” con un quantitativo variabile tra le 35 e le 40.

Commento finale

In ogni goccia di Dragon Age:Inquisition c’è l’amore viscerale di Bioware per i giochi di ruolo, nel senso più puro del termine: dialoghi, scelte morali e una miriade di quest secondarie sparse per un mondo di gioco pulsante, credibile e coerente con il retaggio dei primi due capitoli.
La passione infusa nel prodotto si nota da un’infinità di piccoli particolari, e porta a soprassedere su un comparto tecnico buono ma non entusiasmante e su un’interfaccia migliorabile, a fronte degli sforzi profusi per offrire al giocatore un mondo fantastico in cui immergersi e lasciarsi coinvolgere.
Per quanto la concorrenza finora non sia delle più agguerrite, l’ultima fatica del team canadese sa meritarsi, a mani basse, il titolo di migliore RPG disponibile per le console di attuale generazione.