Il caso PlayStation Store dimostra che il concetto di acquisito, in ambito digitale, vale meno di zero.
Una volta i concetti di proprietà erano più definiti. Certo, nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte le cose sono cambiate, ed il possesso della copia di un bene non equivale alla proprietà sull’originale. Quando compriamo un DVD (qualcuno ancora lo fa?) non diventiamo proprietari del film, ma acquistiamo il diritto a possederne una copia per riproduzione privata, in teoria a tempo illimitato: sebbene anche i supporti digitali tendano ad usurarsi nel lungo periodo, una conservazione adeguata può assicurarne il funzionamento per decenni.
Ma cosa succede nel momento in cui gli store e le copie dei beni che “acquistiamo” si fanno totalmente digitali? Ha ancora senso parlare di “possesso di un bene”? La digitalizzazione porta vantaggi evidenti in termini di spazio fisico e risparmio economico, ma non è esente da rischi, come ha dimostrato recentemente il caso dei contenuti scomparsi di punto in bianco dal PlayStation Store.
PlayStation Store, Sony rimuove un intero catalogo da un giorno all’altro!
A causa di problemi di accordi di licenza Sony ha comunicato agli utenti possessori di account PlayStation ID che, a partire dal 31 dicembre 2023 rimuoverà tutti i contenuti di proprietà di Discovery dal proprio Store. Ciò significa che qualunque show a marchio Discovery fosse presente sullo Store sarà eliminato, compresi quelli già acquistati dagli utenti, che non se li troveranno più in libreria. La lunga lista comprende circa 1300 show! La stessa cosa era avvenuta l’anno scorso per i contenuti di proprietà di Studio Canal, rimossi anch’essi dallo Store. Non sono previsti rimborsi di alcun tipo per gli acquisti fatti. Insomma Se avevate acquistato qualcuno di questi show, mi spiace per voi ma avete appena perso tutto, soldi e catalogo.
A questo punto sarebbe meglio parlare di noleggio prolungato, dato che di fatto state acquistando il “diritto a visionarne una copia” fintanto che essa permane sui server dell’azienda, piuttosto che di “acquisto o noleggio”, termini tutt’ora utilizzati sugli store digitali ma che non restituiscono affatto la realtà dei fatti. “Acquistare” una copia digitale non vi dà assolutamente la garanzia di possesso, soprattutto per quei contenuti che vengono fruiti in streaming. Discorso diverso, ovviamente, per tutto ciò che viene effettivamente scaricato ed installato sul nostro dispositivo, e che di norma rimane nelle nostre disponibilità fintanto che non lo disinstalliamo. Pensiamo ad esempio ad un gioco comprato e scaricato tramite GOG, che peraltro concede software libri di blocchi anti-pirateria: in quel caso, una volta scaricato, nessuno potrà più impedirci di fare ciò che vogliamo con quei file, compresi copiarli e diffonderli a destra e a manca.
C’è da dire che la scorrettezza non sta nel far scomparire dall’oggi al domani i contenuti di un catalogo (tutti gli accordi di licenza tra produttori e distributori di norma hanno delle scadenze temporali), ma nel negare qualsivoglia rimborso agli acquirenti. Ci sono senz’altro delle mancanze anche dal punto di vista della comunicazione di Sony verso i clienti, poco trasparente nell’esplicitare che all’esborso economico di questi ultimi non corrisponde effettivamente un possesso imperituro del bene. Sony insomma non sembra avere interesse nel rinnovare contratti di licenza per portare sul proprio store contenuti multimediali di altri produttori, volendo invece incentivare “l’acquisto”) di titoli del proprio catalogo, come dimostra l’annuncio dell’ampliamento del catalogo cinematografico Sony all’interno di PS Store e l’inclusione di una selezione di 100 titoli Sony Pictures all’interno del servizio in abbonamento PlayStation Plus.
Nulla dura per sempre, nemmeno i videogiochi
Insomma al di là di come ci sia stata venduta la grande conquista della digitalizzazione dei beni multimediali, è passato sotto silenzio che sono le produzioni ad averci guadagnato di più: a proprio piacimento possono decidere da un giorno all’altro di rimuovere i contenuti dai propri store e fuggire con la cassa. Da qualche parte, in caratteri troppo piccoli per essere letti ad occhio nudo, una qualche postilla contrattuale consente loro di farla franca senza garantire uno straccio di rimborso ai propri clienti paganti.
Questo problema, se ci rivolgiamo all’ambito gaming, ha conseguenze inquietanti anche sulla preservazione videoludica: nessun videogioco è al sicuro dal rischio oblio, nonostante la sua natura digitale dovrebbe agevolarne la conservazione. Quest’anno, ad esempio, Nintendo ha chiuso i propri store digitali di Wii U e 3DS. I possessori di tali console per il momento possono continuare a scaricare titoli già acquistati in passato, ma non possono comprarne di nuovi. E non c’è alcuna garanzia che in futuro Nintendo non decida di negare anche questa possibilità, dismettendo in toto i due store. Se avete effettuato acquisti digitali su queste piattaforme vi consiglio di scaricarli tutti e metterli al sicuro!
Tutti questi problemi minacciano la memoria e la conservazione del retrogaming, con molti videogiochi che sono, incredibile a dirsi, a rischio estinzione. Vi avevo già parlato di questo problema in un #GameFactory dedicato alla presentazione di una ricerca effettuata dalla Video Game History Foundation, che riportava un dato agghiacciante: l’87% dei giochi classici rilasciati sul mercato americano sono ormai irreperibili! Questo perché i produttori di software non si preoccupano quasi mai della preservazione, delegando tale compito ad associazioni di volontari ed enti che vivono di sovvenzioni pubbliche o, molto più spesso, di donazioni private. Inoltre ci sono situazioni paradossali per le quali queste stesse realtà fanno fatica a compiere la loro nobile missione, ostacolati proprio dalle major che sono riottose a condividere materiali e risorse preziose di loro proprietà, sebbene all’atto pratico non se ne facciano nulla, e magari guardano con sospetto tali attività temendo di rimanere vittima di pirateria e violazioni di copyright.
Ed in effetti la realtà è proprio che l’emulazione è il salvagente cui molti videogiochi devono per forza appigliarsi per non scomparire per sempre. I dati della ricerca infatti parlano chiaro: è praticamente impossibile trovare sul mercato oggi un titolo Commodore 64 o Game Boy; persino i giochi PS2, che sembrano tutto sommato ancora diffusi, sono ridotti a un decimo del parco titoli complessivo. La situazione è particolarmente grave per i videogiochi precedenti al 1985, oggigiorno disponibili nell’ordine del 3% del totale: sostanzialmente l’intera storia videoludica pre-anni ’80 è a rischio scomparsa. Il sito Delisted Games, a tal proposito, elenca all’oggi circa 1800 videogiochi rimossi dagli store digitali nel corso degli anni e mai più ripubblicati.