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Ma i PlayStation Studios sono davvero la Marvel del videogioco? #Crossplayer

God of War: Ragnarok (qui la nostra recensione) è uscito da quasi un  mese, portando di nuovo sulla scena della critica videoludica uno dei topic più “appassionanti” degli ultimi anni: il gigantismo del modello produttivo e stilistico di mamma Sony, un meccanismo talmente “grande” e peculiare nelle sue caratteristiche da essere riconoscibile a prima vista.

Il nuovo GoW, così come The Last of Us, Uncharted o anche il nuovo Ratchet & Clank, sono infatti giochi prodotti con gigantesche somme di denaro per far sì che gli sviluppatori possano costruire giochi coinvolgenti all’ennesima potenza, forti di una scrittura e di una messa in scena vicina a quella di un vero blockbuster hollywoodiano, di quelli che portano milioni di persone al cinema e miliardi nelle casse dei producers. 

Insomma, i titoli Sony appaiono simili, per target, obiettivi e valori produttivi, ai lavori di un altro grossissimo (e discusso) marchio, ovvero Marvel/Disney; colosso verso cui spesso scatta il paragone.

Questo confronto ha qualche fondo di verità?

Partendo da un’analisi critica ancor prima che produttiva, tentiamo di ragionarci su.

Sony e Marvel: questioni di immagine

Partiamo dalla tesi diffusa in parte dell’utenza: in pratica, parte del discorso pubblico relativo al modello dei PlayStation Studios, etichetta fondata all’alba della corrente generazione da Sony per raggruppare i suoi studi first party (fra i quali Naughty Dog, Santa Monica, Insomniac, solo per citarne alcuni), vede nei giochi di questi ultimi dei veri e propri kolossal produttivi che basati su un gameplay all’apparenza molto “basic”, ma che in realtà è studiato per essere accessibile a varie categorie i giocatori (da quelli “occasionali” alle nicchie) mediante un ambiente confortevole e al tempo stesso accattivante. Il giocatore, in altre parole, deve ritrovarsi a casa, e deve vivere il gioco come la miglior esperienza possibile.
Obiettivo finale, portare nelle case di tutti noi fiammanti PlayStation 5 e i loro giochi.

Giochi che devono essere “per tutti”, raggiungere tanto i casualoni quanto i giocatori di nicchia, proponendo un modello di gioco estremamente “empatico”, basato su storie d’impatto e soprattutto su registri narrativi e stilistici accattivanti.

Un’operazione che come dicevamo molti vedono analoga a quanto fatto dalla Marvel col suo Cinematic Universe a partire dal 2008 (anno di uscita di Iron Man, di Jon Favreau), con la trasposizione dei supereroi della Casa delle Meraviglie in una serie di film costruiti ad arte per funzionare alla perfezione e incontrare un pubblico quanto più variegato possibile.  Sono film per tutti, hanno messe in scena potenti, fanno delle storie dei supereroi vere e proprie parabole che riflettono alcuni grandi temi dell’“oggi”. E, soprattutto, puntano a coccolare i loro spettatori, a dare loro quello che vogliono (quasi) come lo vogliono, puntando il loro successo sulla creazione di un dialogo fiduciario con il loro pubblico. 

Certo, va detto che a rendere il binomio fra il gigante del gaming e l’MCU “azzeccato” è la curiosa scelta di Sony di dare ai suoi PlayStation Studios un’identità di brand molto vicina quella dei team Marvel, con una opening che è tutta un programma.

Non solo si tratta di un’impostazione che sembra scimmiottare l’opening dei film Marvel, ma che soprattutto sceglie di raccontare i suoi brand più importanti come se fossero icone del gaming, inossidabili, gli eroi che ogni giocatore dovrebbe portare con sé al letto come “best friends” assoluti.

Se quindi vogliamo partire per quest’analisi, va tenuto subito a mente, e in modo chiaro, che da qualche anno a questa parte Sony sta cercando di cementare questa sua posizione nel mondo dei videogiochi, in ogni modo possibile. 

Gigantismo e immersività

Al di là dei confronti modaioli del pubblico e degli analisti e degli ammiccamenti di Sony a quello che a torto a ragione è la fabbrica di blockbuster più redditizia del cinema pop contemporaneo, va detto che come già accennato i punti di contatto fra i due modelli di “storytelling” esistono e sono tanti, anche se non del tutto scontati.

Partiamo da cosa possiamo intendere per “modello Marvel”, da un punto di vista prettamente cinematografico: un bestione di circa due ore (forse qualcosa di meno o di più) che spesso infarcisce una trama lineare e formata da alcuni elementi chiave di momenti cult, spettacolarità a go-go, ovviamente battaglie epocali. 

Il registro linguistico è “frizzante“, i personaggi devono vivere di gag e comunicare con lo spettatore tanto con la loro figura iconica quanto con l’interpretazione. E, ovviamente, il film fa di tutto per mettere gli spettatori a loro agio con una messa in scena “morbida”, “calda”, che quasi bombarda di stimoli visivi e sonori. 

Per raggiungere questi obiettivi, i classici Marvel devono lavorare molto sul proporre a chi guarda dei temi davvero “alla portata di tutti”, che coinvolgano vaste fasce di pubblico non solo con la promessa dell’emozione, ma anche con quella di uno spettacolo a suo modo edificante e faccia uscire dal cinema con un bagaglio emotivo un po’ più arricchito.

Ora, quelle che abbiamo elencato appena sopra sono quasi tutte (sottolineo quasi) caratteristiche narrative e registiche che possiamo trovare nei due God of War, nei due The Last of Us, negli Uncharted (almeno dal 2 in poi), ma anche negli Spider-Man o negli ultimi Ratchet & Clank. 

Per capire di che parlo, prendiamo per esempio God of War, il primo, e in particolare i suoi primi minuti (grazie, IGN):

La camera che segue Kratos passo passo attraverso l’ormai iconico piano sequenza by Cory Barlog, i dialoghi centellinati e costruiti mescolando registro drammatico, epica e, già un po’ piu’ avanti nell’avventura, quel misto di sarcasmo e ironia nel tratteggiare Atreus e il rapporto con il padre: milioni di dollari spesi da mamma Sony per costruire una messa in scena sontuosa che deve fare costantemente l’occhiolino al giocatore per ricordargli che è al centro della più grande storia che possa giocare, proprio sulla sua PlayStation.

Una costruzione che può piacere o meno, ma ha le idee chiare sui suoi obiettivi e mostra bene i muscoli, e soprattutto una costruzione che viene ripetuta tipo pattern consolidato in tutte le grandi produzioni Sony, piegato di volta in volta ai diversi obiettivi narrativi, costruendo giochi che vanno non solo ad abbracciare generi diversi, ma anche a portare nel videogioco modelli di blockbuster differenti. 

Ecco quindi che GoW diventa una sorta di film mitologico d’autore con la pretesa di riflettere sul rapporto padre-figlio, Ratchet & Clank assume il compito di ricreare la frizzantezza di un film d’animazione contemporaneo, mentre Uncharted traspone il modello di Indiana Jones in una dimensione contemporanea in cui l’elemento umano risalta come non mai.

Il diavolo è nei dettagli, come dice un grande quanto abusatissimo adagio, e proprio sui dettagli dello storytelling e della messa in scena lavorano gli studi Sony, riuscendo spesso a mettere insieme gameplay convincente e storytelling appassionante.

Ovviamente, questa ricerca non può essere definita come una peculiarità di Sony.
Oggi la larga parte del videogioco popolare ha un approccio story-driven e calato in un’ottica di storytelling che poco ha da invidiare al modello hollywoodiano. 

Colori cool per far risaltare al meglio la fotografia ed effettistica quasi oppressiva: benvenuti in Avengers: Endgame

Per fare un esempio, persino il “piccolo” A Plague Tale: Requiem riesce a costruire una narrazione videoludica fortissima, in grado di recepire alcune buone lezioni da classici come The Last of Us (ne abbiamo parlato in quest’analisi, qualche giorno fa). I team Sony però hanno ovviamente dalla loro mezzi tecnici e comparti creativi talmente giganti da poter portare questo modello fino a una forma esasperata e particolarmente intensa, in tutti i sensi, riuscendo come gli “alfieri totali” di quel modello, nel bene e nel male. 

Anche qui troviamo un parallelismo niente male tra Sony e Marvel, perché come nel caso della prima anche l’MCU non ha certo inventato il cinecomic e il suo linguaggio (forse da questo punto di vista il primato spetta a X-Men di Bryan Singer, evoluzione da terzo millennio del modello inaugurato da Superman di Donner e Batman di Tim Burton), ma lo ha fortificato dando a esso un modello produttivo e una formula narrativa limata fino alla perfezione. 

Il gigantismo nel resto dei comparti è solo una conseguenza: dal marketing alla retorica che accompagna le uscite dei vari dispositivi di gioco e i titoli first party, tutto funziona su una scala gigantesca che vuole osare sempre più. 

Se con risultati positivi o negativi, lo vedremo più avanti.

Kolossal che parlano della (o alla?) realtà

Di tutti gli aspetti elencati sopra, ce n’è infine uno che va trattato con particolare attenzione: l’aspetto “valoriale”.

Un anello di congiunzione niente male, tanto nei giochi Sony quanto nei film Marvel, è infatti il fatto che entrambi sono dei modelli di kolossal che vogliono parlare della realtà che li circonda, in qualche modo, o meglio di temi e “mood” nei quali il pubblico può rispecchiarsi e prendere posizione.

Ciò ovviamente varia da gioco a gioco e da film a film, e ovviamente non costituisce mai sempre il fulcro del racconto, ma in vari film Marvel troviamo piccoli “temi” che si riallacciano alla realtà (l’inclusività, per esempio, o anche o un più blando discorso sul rapporto padre-figlio, o ancora la malattia).

E la stessa cosa avviene nei giochi Sony, con un God of War che tratta anche qui del legame fra genitore e figlio, un Uncharted che nella sua forma più moderna ha deciso di trattare malinconicamente quello del tempo che passa e dei miti che scoloriscono, The Last of Us… va bene, che ve lo dico a fare?

Se questa osservazione sembra banale, tenendo presente che stiamo parlando di blockbuster (e il blockbuster deve essere, da sempre, veicolo di grandi riflessioni popolari, anche spicciole), più interessante è ragionare su qual è il registro linguistico dei classici Sony, ovvero il tono con cui queste storie vengono raccontate. 

Torniamo a God of War.

Come si fa a raccontare a un giocatore del 2018 (e del 2022) il rapporto fra padre e figlio e quello, legato a esso all’interno del gioco, dello status di divinità e delle responsabilità che esso impone? Ma è ovvio, mescolando il registro della solennità – che deve essere presente in un GoW – con il popolare contemporaneo, con lo slang, la battuta, la popolarizzazione.

Un effetto che nelle battute centrali di Ragnarok è particolarmente ben reso dalle dinamiche fra i due, e che fa trovare al gioco quella freschezza di cui ha bisogno per arrivare a tutti. 

Va detto che questa popolarizzazione è poi una delle maggiori cose che vengono criticate alla Marvel e ai suoi film, accusati spesso di spogliare i classici dei fumetti dei loro caratteri più “epici” e per questo “universali” (per quanto universali possano essere prodotti di letteratura pop nati in seno al contesto socioculturale degli U.S.A. anni ‘60-’70) e per questo “solenni” per riempirli di temi e contenuti dell’”oggi”. 

Con la differenza che spesso i giochi Sony, brand nati da pochissimo in mano alla “Marvel dei videogiochi”, sono prodotti originali, fatti e finiti; manipolabili a piacimento dai loro creatori. Chi siamo noi per andare contro certe impostazioni?

Marvel dei videogiochi o semplicemente “Hollywood dei videogiochi”?

Tiriamo le somme, e facciamo un paio di ultime domande, finendo il confronto.

Parliamo di differenze, che ci sono e sono anche forti.

In circa quattordici anni di MCU (vi sentite vecchi, vero?), Marvel prima e Disney poi hanno costruito una quarantina di prodotti fra film e serie TV con intervalli di uscita che sono andati da circa un anno a sole poche settimane, creando una fitta rete di esperienze visive unite da un modello produttivo e stilistico molto simile. 

Sony, nel seguire quello che è stato il modello degli sviluppatori frst party, ha ovviamente seguito un pattern produttivo con grosse differenze lavorando più sul dare delle indicazioni portanti ai vari studi sussidiari per garantire un’omogeneità di stile narrativo, focalizzando l’attenzione su una certa varietà di temi e target, mantenendo chiaramente una diversità di approccio e tentando di costruire un approccio al mercato molto generalista.

È ovvio che se guardiamo oltre il dato produttivo stilistico troviamo due “filoni” fortementi diversi, essendo l’MCU appunto un unico universo coerente (almeno nelle intenzioni) e la Sony semplicemente la produttrice e fianziatrice di giochi uniti di fatto solo dai valori produttivi e da un certo approccio di messa in scena.

Tuttavia, a ben vedere, anche Marvel ha tentato di seguire un abbraccio di vari generi, spesso arrivando quasi a dare idea di voler correre letteralmente a riempire ogni “buco” possibile e immaginabile (pensiamo a Wanda/Vision, a tutti gli effetti un melò shakerato col superoistico, o Licantropus, un “horror”), spesso però lavorando in un’ottica di riportare tutto a un’unica chiave di lettura, a un’unica “interpretazione” di quei generi.

Se la poniamo su questo piano, viene il sospetto che i Playstation Studios, nel tentare di portare il “modello Marvel” nella loro industria, vi abbiano in realtà portato il loro “contenitore ideale”, ovvero quello del kolossal hollywoodiano tout-court, di cui di fatto la Marvel non è altro che l’alfiere più illustre.

Un modello di sviluppo a base di effetti speciali, manuali di sceneggiatura seguiti a menadito che ottimizza al meglio gli sforzi della produzione e porta a un ritorno quasi certo costruendo un pubblico altrettanto “d’acciaio”? 

È una differenza sostanziale, se pensiamo che quel tipo d’industria (madre del modello marvelliano), fra anni ‘80 e 2000 è riuscita a produrre film importantissimi per il cinema pop come e i kolossal di James Cameron, The Matrix, Strange Days, solidi action come Arma Letale e così via, dopo decenni in cui certi generi erano relegati nella serie B non troppo convinta.

Ecco, l’augurio è che l’andazzo per il blockbuster videoludico sia proprio questo, con un’accettazione sempre migliore e più efficace del gioco digitale fra i mass media “che contano”, senza perdere la qualità.

Almeno si spera.

This post was published on 9 Dicembre 2022 12:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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