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Ma c’è qualcuno che si preoccupa della dissonanza ludonarrativa nel 2021?

Esistono, nascosti fra le righe della critica ludica, dei piccoli mostri in agguato di chiunque voglia trattare il videogioco come un mass media serio, dei concetti e dei temi che tornano regolarmente e sono capaci di polarizzare le opinioni degli addetti ai lavori.

Una di queste paroline magiche è senza dubbio dissonanza ludonarrativa, e si tratta di un concetto coniato dallo sviluppatore Clint Cocking nel 2007, quando diede corpo a un’osservazione scottante: nonostante un di tutto rispetto, vari giochi dell’età contemporanea (facciamo vecchi al massimo di circa un decennio) presentano delle “discordanze concettuali” fra quello che il giocatore deve fare nel corso dell’avventura e quello che i creatori del gioco volevano raccontare attraverso la loro opera.

2007: da dove parte tutto

Il gioco da sempre portato a esempio dalla critica è Bioshock di Ken Levine: secondo i critici, nonostante l’intera opera voglia parlare del concetto di libero arbitrio e di potenza delle azioni umane, la riflessione di fondo sul controllo della realtà da parte del giocatore è fallata dal fatto che esistano diversi finali che vanno a giudicare moralmente la condotta del giocatore, fatto che simboleggia inevitabilmente una dissonanza fra necessità di gameplay e tema del gioco.

Si tratta di un tema vecchio, vecchissimo, riportato in auge anche ieri, tranquillo giovedì del settembre 2021, da un’affascinante analisi di Destructoid che in chiusura afferma che purtroppo al momento la dissonanza narrativa altro non è che un difetto congenito del medium-videogioco (la trovate qui).

Ma è davvero un “difetto”?

Dissonanza ludonarrativa: una caratteristica sempre più attuale

Se l’esempio di Bioshock appare oggi alquanto arcaico per essere preso sul serio, in quanto si tratta di un gioco molto vecchio e strutturalmente legato a uno stadio di poco precedente a quello attuale, è innegabile tuttavia che negli ultimi anni gli esempi di gioco che presentano dissonanza ludonarrativa sono aumentati in maniera esponenziale e hanno presentato diverse declinazioni di questo problema.

Neanche The Last of Us: Parte II è sfuggito al dibattito

Una forma di dissonanza ludonarrativa può essere, per esempio, quella presentata in giochi open-world come The Witcher 3-Wild Hunt o Ghost of Tsushima: a fronte di un obiettivo “urgente” e “,vitale” presentato dalla main quest del gioco (trovare Ciri nel capolavoro CD Projekt e liberare nostro zio dai mongoli nel gioco Sucker Punch), al giocatore viene dato il libero arbitrio di esplorare un vasto territorio tanto liberamente da poter arrivare a ignorare la sua missione principale per andare a finire ogni singola side. Un’impostazione tuttavia motivata da un escamotage sempre evergreen: nel conseguimento della sua missione, il nostro eroe è portato a dover raccogliere informazioni e raggruppare alleati per poter diventare più forte e raggiungere i suoi obiettivi.

Se questa tipologia può essere spiegata o ignorata, tuttavia, diverso diventa il discorso quando analizziamo alcuni giochi confrontando l’impostazione del loro gameplay con la loro morale. Per esempio, non pochi sono i critici che hanno fatto notare come quello che è stato definito uno dei più riusciti giochi “antiviolenza” dei tempi recenti, The Last of Us-Parte II, sia in realtà caratterizzato da una cura maniacale nel dettaglio delle uccisioni e soprattutto da un combat system tanto solido da apparire quasi gratificante.

Insomma, il punto è: “Come faccio a sentirmi in colpa dei miei omicidi se uccidere PNG è così divertente?“.

E’ un punto paradossale, perché, se da una parte la natura di “gioco” di TLOU2 spinge a non domandarsi neanche se sia normale o giusto uccidere persone in modo tanto spettacolare, dall’altra in effetti ti porta a chiederti se quest’impostazione non sia un tradimento della riflessione finale.

Nathan Drake: bravo ragazzo o assassino?

In teoria, l’intera riflessione si potrebbe derubricare a questioncina dicendo “E’ un gioco action-adventure prodotto in un momento storico in cui la spettacolarizzazione del combattimento va abbastanza, che ti aspettavi?”, ma in realtà mette in risalto un elemento essenziale della fama del videogioco oggi, all’epoca dell’amore per i grandi spettacoli cinematografici o televisivi: ci aspettiamo sempre più che i giochi raccontino storie compiute prima ancora che sfide facciano giocare, portando noi stessi a pretendere una coerenza organica di fondo.

Ed è qui che nascono i problemi.

Fra gioco e narrazione

La verità è semplice: se il problema della dissonanza è sempre lì, (onni)presente, lo è anche la sua (non) risoluzione.

“Ti ricordi che devi andare a prendere Ciri?” “Sì, un altro Contratto e vado, tranquilla!”

Il videogioco è un medium strano, o per lo meno un medium che ha abbattuto come mai nessun altro i confini dei vari media attraverso una natura del tutto interattiva. Schematizzando, il videogioco ha saputo unire la spettacolarità dell’intrattenimento audiovisivo (film e serie) o, quando si parla di avventure testuali et similia, la bellezza della lettura, con il “congegno ludico”, ovvero l’idea di mettere in mano al giocatore la scelta di poter manipolare l’esperienza di intrattenimento attraverso il proprio controller. E’ forse il medium che, assieme al giocattolo o allo sport, permette alla persona di svagarsi e divertirsi attraverso un’attività che risponde a tanti nostri “bisogni mentali”: voglia di relax, voglia di scoprire nuovi mondi, istinto di sfida, puro e semplice divertimento dato dal vedere che succede quando premiamo un tasto (“Fico, con questo si spara!”).

Quando però il congegno ludico è inserito all’interno di una cornice narrativa di grande impatto e soprattutto con obiettivi di riflessione, ciò che può accadere è una componente pesti piedi all’altra e che il giocatore, tentando di “tenere insieme” le due cose, si ritrovi deluso dall’uno o dall’altro (vi ricordate l’epoca in cui ci lamentavamo dei giochi troppo costruiti sulla trama e poco sul gameplay?).

Tomb Raider (2013): può una ragazzina trasformarsi in una macchina da guerra in tre minuti?

Come se ne esce?

Semplice, oggi, nel 2021, si accetta che ci sia una sorta di compromesso non detto fra le due componenti.

Nel famoso “paradosso Drake”, per esempio, si accetta senza problemi che il protagonista di Uncharted sia al tempo stesso una feroce macchina da guerra capace di uccidere decine di persone e un ragazzo gentile in grado di passare le sue serate a giocare a Crash sul divano.

Perché?

Per due ragioni. La prima, che accennavamo sopra: perché in fondo lo scopo del videogioco contemporaneo è per il 90% di affrontare una serie di sfide mortali attraverso una gestione del conflitto violenta, quindi siamo portati quasi naturalmente ad accettare una complicazione morale di fondo. Secondo, più sottile, perché per la nostra impostazione mentale occidentale, nutrita da secoli di letteratura, cinema e poi videogiochi d’azione, ci porta a vedere nell’eroe armato e responsabile di uccisioni a volte atroci una figura positiva a prescindere, perché spesso il suo obiettivo è “nobile” o anche solo “socialmente accettabile”.

Al tempo stesso, un processo mentale diverso ma analogo esce fuori anche quando per esempio andiamo a cavalcare liberamente per il Velen con Geralt di Rivia, in cui pur sapendo bene che, se a livello di storia alcune azioni hanno poco senso, in termini ludici ci fanno stare bene e ci rilassano, rispondendo a un bisogno (passare del tempo vagando per la mappa).

Ma sicuri che la dissonanza ludonarrativa valga solo per il videogioco?

Ma sicuri che questi compromessi valgano solo per il videogioco?

Riflettiamo, in particolare sulla nostra capacità di operare una sorta di sospensione dell’incredulità totale di fronte a certe opere, in particolari visive.

Se con i romanzi o i racconti la narrazione lineare necessità per forza di cose di coerenza e capacità di racconto, il cinema commerciale ci ha spesso abituato ad andare verso il compromesso esposto sopra.

Prendiamo per esempio un qualsiasi film action anni ’80, in cui nel 90% dei casi l’eroe della situazione è un bontempone che deve salvare la sua famiglia o vendicarla contro i cattivoni di turno. Nel farlo però finisce per uccidere, far saltare in aria aerei, persino fare qualche battutina di dubbio gusto (sì, Commando con Arnold Schwarzenegger, sto parlando di te!), ma ce ne sbattiamo, perché in quel momento quello che conta è il divertimento, lo stare di fronte allo schermo e seguire una storia che per quanto stupida può divertirci.

Ciò vuol dire quindi che la dissonanza ludonarrativa sia una certezza immutabile e inalterabile anche nel futuro del medium?

Tre possono essere le risposte (tre, sì).

A)La più facile: sì, e non dovrebbe neanche inquietarci perché si tratta di una caratteristica che in fondo non fa male a nessuno né castra in modi troppo feroce il divertimento.

B)Quella ottimista: dipende dai creativi e, ancor di più, dalle tecnologie che avranno in mano. Se i creativi vorranno dare ai giocatori possibilità di controllare sempre più il loro “narrato ludico”, dovranno ragionare molto attentamente sulle diverse features, e ciò vorrebbe dire rielaborare in profondità il gameplay del gioco d’azione medio, dando la possibilità per esempio di agire stealth per non uccidere nessuno e di andare incontro a un finale coerente con questa scelta. Fattibile, in parte già in atto, ma più volte risultato non privo di sbavature.

C)Quella realistica: dipende dal mercato, banalmente. Se il pubblico inizierà a dimostrare sensibilità su questo dettaglio, il mercato darà delle risposte interessanti.

In caso di risposta negativa al terzo punto, però, keep calm e fatevi una domanda: davvero occorre concentrarsi così tanto sulla dissonanza ludonarrativa?

Almeno da giocatore, secondo me no.

This post was published on 24 Settembre 2021 14:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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