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Pensieri sparsi sul perché è normale farsi spaventare dal multiverso di Fortnite (o apprezzarlo molto)

Domenica sera, cena in famiglia.

Mentre penso a una scusa per fuggire in fretta a giocare o leggere, l’occhio cade sulla Switch di mio nipote, nove anni. Fortnite, partita con gli amici, PG colorati e armati con improbabili fucili d’assalto giganteschi portano caos su un’isola immensa e colorata. Non ho Fortnite in particolare simpatia, l’ho provato solo una volta ma non mi ha preso (del resto, non sono tipo da competitivi). D’un tratto però una cosa ad attrarre la mia attenzione: una nuova skin per i PG, una skin che mi fa tornare in mente pomeriggi al cinema di vent’anni fa, quando Gabriele non era neanche nei pensieri di mia sorella. La skin è Will Smith. O meglio, Will Smith nei panni del detective  Mike Lowrey di Bad Boys, “capolavoro” di Michael Bay del 1995.

E lì, a quel punto, il cervello mi scoppia: davanti a me non ho un gioco multiplayer, ma il primo social network con product placement mai sperimentato da mio nipote.

Multiversi e social media

Il simpatico aneddoto che ho appena raccontato non evidenzia nessuna novità di Fortnite, né dovrebbe stupire: sono infatti almeno due anni che il gioco milionario di Epic Games ha svelato la sua identità di gigantesco contenitore di personaggi di brand eterogenei inseriti in una cornice di gioco massiva, ai quali si aggiungono live event di artisti e prime di trailer e film (vedi il caso di Tenet, che nel maggio del 2020 ha visto un suo trailer debuttare nel gioco). Una macchina che ha dato a Epic un ruolo dominante nel videogioco online contemporaneo e l’ha resa sempre più appetibile da brand e investitori per come medium promozionale.

Anche il progetto che soggiace a Fortnite è noto da tempo: è da aprile dello scorso anno che i suoi creatori hanno cominciato a parlare della volontà di costruire una sorta di metaverso, un luogo virtuale fatto di PG, PNG, ma soprattutto di figure provenienti da diversi universi narratvi.

A tutti gli effetti, una piattaforma social in cui le persone interagiscono e interagiscono con film, fumetti, persino altri videogiochi. In termini di analisi sociale, l’inserimento della skin di Kratos di GoW 2018 in Fortnite è una mossa di marketing molto simile a ciò che poteva significare aprire la pagina di un brand su Facebook nel 2008, periodo di massimo trionfo per il social di Mark Zuckerberg.

Ed è una strategia che abbraccia brand anche vecchi di decenni, magari sì alimentati da nuovi episodi (è il caso di Bad Boys, il cui ultimo film è uscito in Italia poco prima del lockdown 2020), ma soprattutto ancora remunerativi per i produttori grazie al merchandise, e ad attrazioni di parchi divertimenti sparsi nel mondo.

Il modello è in ascesa, i giocatori non mancano, il giro d’affari è colossale ed Epic Games è una miniera d’oro, per quanto Fortnite sia spesso visto dai giocatori meno addentro come una iattura, un ammasso informe di gameplay banale, scarsa caratterizzazione in termini di mood e storytelling e commercializzazione brutale.

E io, in parte, sono fra queste persone.

Tuttavia, lo confesso: le domande e la fascinazione per il gioco non mi mancano.

Perché Fortnite mi spaventa

Disclaimer: paragrafo ad alto tasso di boomerismo e conservatorismo, che spero di mitigare col prossimo.

Quello che mi “spaventa” di Fortnite non è tanto l’impostazione che non mi attrae, quanto il fatto che a naso rischia di decontestualizzare e banalizzare una serie di processi creativi che sono alla base della pratica ludica (video e non) che ci hanno accompagnato nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza.

In Fortnite le storie non sono storie, gli eroi non sono eroi: per forza di cose, tutto ciò che passa attraverso il gioco di Epic viene sezionato, smontato, ripulito e rimontato con l’obiettivo di creare un grande parco divertimenti in cui tutto è funzionale all’apparire, al mostrare, al mettere in vetrina, esattamente come in ogni social network che si rispetti. Io gioco con Kratos, io ho più probabilità di chiedere a mamma e papà di comprarmi God of War 2018.

In teoria, perché nel marketing esiste una cosina chiamata “funnel”: a fronte di tutte le premesse e dei mezzi messi in campo, l’acquisto di un prodotto sulla base della promozione è sempre legato a una probabilità.

E se quindi l’utente finale è o troppo piccolo, o troppo distante dai ritmi narrativi intensi di God of War? Semplice: Kratos rimane una figurina sullo sfondo di un battle royale massivo in cui non emerge né l’identità né la bellezza del capolavoro di Cory Barlog. Da un punto di vista “di realtà” e di analisi del mero dato economico potrei dire “va bene, non è la fine del mondo”. Per chi però sa il valore del gioco come medium, come “arte” (e sappiamo tutti che non è un termine troppo altisonante se parliamo di certi giochi), tutto appare alquanto desolante.

Okay, si tratta di un timore, non di una certezza, perché magari poi effettivamente Fortnite avrà aiutato e di molto le vendite di questo o quel brand.

Rimane però, di fondo, il pensiero che tutto ciò possa portare confusione, scarso amore per il gioco come forma di intrattenimento e infine banalizzazione.

Perché Fortnite mi fa sperare per il meglio

Ma, per fortuna, chi scrive si rende conto di essere fin troppo apocalittico e che forse i lati negativi ventilati potrebbero trasformarsi in buone premesse per la cultura del videogioco delle prossime generazioni.

Torniamo all’inizio della nostra vita di giocatori, di lettori, di spettatori, all’epoca in cui potevamo passare tranquillamente dal vedere una puntata di Dragon Ball al leggere Il Gatto con gli Stivali o a giocare a Crash: quanti di voi, almeno una volta, non hanno mescolato tutto insieme all’interno di un gioco di immaginazione, magari solo con action figures e amichetti al seguito?

Molti, penso.

Ecco, di fatto la filosofia di Fortnite è questa, è il raggruppamento di tante storie e tanti personaggi all’interno di un’unica esperienza di gioco che spesso rappresenta il primo impatto di peso di un giovane giocatore con personaggi come Batman, il protagonista di un film famoso o altri. Il tutto in un mondo in cui fumetto, lettura o gioco sono sempre più schiacciati contro lo strapotere del vero medium dominante, il web, fatto di vero e proprio bombardamento di video, foto, immagini promozionali, testi frammentati che non favoriscono il seguire una storia compiuta.

Se siamo ottimisti, il fatto che tanti ragazzi fra i nove e i quattordici anni maneggino questi personaggi in ambiente virtuale, iniziando a prenderci la mano e a “giocarci” nel modo più semplice e immediato, anche senza contestualizzazione, può creare le premesse per far sì che in tanti si avvicinino già da “piccoli” alla cultura dell’intrattenimento (un modo più accettabile per parlare di “cultura nerd”, forse).

Si tratta di un potenziale enorme anche e soprattutto se guardiamo alle condizioni in cui tanti ragazzi crescono: città sovraffollate in cui il ritrovo culturale (come anche solo una fumetteria) è vista come un bene di lusso e, da qualche mese, una pandemia che ha reso il gaming online un elemento di socialità (qui un nostro speciali in merito).

Una potenziale interessante, che tuttavia può tramutarsi in un fattore positivo per il gioco solo se gli apparati marketing dei giganti che usano Fortnite come vetrina sapranno crescere questi nuovi utenti alimentando la loro attrazione in maniera sana e attenta a concetti come cultura del gioco, attenzione alla creatività, cura del divertimento.

Insomma, solo se tratteranno gli utenti da persone come appassionati, e non come semplici follower.

This post was published on 31 Agosto 2021 14:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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