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Che danni fanno le mod? Take Two dice la sua (e ci delude un bel po’)

Va bene, lo ammetto: mi ero sbagliato.

Quando, due settimane fa circa, era arrivata la notizia che Take Two aveva fatto fuori la più grande e ambiziosa mod per GTA San Andreas, che comprendeva al suo interno un’unione fra le mappe di quel gioco, di Vice City e Liberty City, avevo sperato che ci fosse qualcosa in pentola e che fosse arrivato un segnale sull’impostazione del prossimo GTA VI, con il publisher impegnato a far fuori una mod “scomoda” in vista di un progetto ambizioso.

E invece? E invece no, neanche per sogno: durante una recente chiamata per gli investitori, il CEO di Take-Two Strauss Zelnick ha commentato l’eliminazione di GTA Underground e di altre mod.

Zelnick ha affermato che mentre Take-Two è flessibile, toglierà qualsiasi mod che minaccia il suo profitto o quando c’è un cattivo comportamento.

Insomma: sì, chi sperava che la campagna di Take-Two avesse l’obiettivo di spianare la strada a nuove pubblicazioni era tutt’al più un entusiasta ingenuo, perché in realtà quelle speranze si sono trasformate nella certezza che il colosso del gaming non stia facendo che l’ennesimo “repulisti” verso i contenuti fan-made che minerebbero la fortuna del gioco.

Allo stato attuale, la sicurezza è una sola: alcuni dei giochi che hanno scritto la storia del modding rischiano di vedere il loro “valore intrinseco” spazzato via.

Perché quello di Take-Two è protezionismo fine a sé stesso

Il fatto che una company di questo settore faccia guerra a mod e altri contenuti non è una novità assoluta, nel bene come nel male: tutto sommato si tratterebbe di pratiche “logiche” in un’ottica preservazione della propria opera.

Peccato che nel caso di GTA Underground questi ragionamenti sembrino portare il suo publisher violentemente fuori dalla (sua) storia, e senza pietà.

In primis per un fatto logico: siamo parlando di uno dei leader settore, un attore multimiliardario rispettato, che oltretutto in questo caso va a toccare principalmente suoi prodotti di vent’anni fa. E’ vero che San Andreas e Vice City sono ancora in commercio in svariate versioni, ma-e qui arriviamo al secondo punto del discorso-perdonaci grande Take-Two: come fa un’opera di modding per l’aggiunta dell’HD a un gioco del 2004 danneggiare il business della sua azienda? Come fa a farlo se parliamo di un gioco ormai poco frequentato da una platea che oggi guarda al massimo a GTA IV (in quanto a episodi “vecchi”) e che si propone di attendere con trepidazione il sesto episodio della serie?

Ma, volendo anche essere clementi con il protezionismo di Take-Two, cercando giustificazioni per delle politiche così restrittive, la cosa si fa paradossale se pensiamo che la fortuna di GTA è stata legata a doppia mandata al modding e all’estrema personalizzazione delle esperienze.

In questo settore, GTA è stato per decenni un vero e proprio tempio per le community, quasi uno status symbol. Addirittura, si parla di un gioco atteso soprattutto dai giocatori su PC perché particolarmente adatto a essere letteralmente smontato, modificato, rimontato. Un gioco a volte comprato solo per potersi godere al meglio le creazioni dei giocatori. Creazioni che, a volte, funzionano come basi per implementare novità negli episodi futuri della serie.

Attaccare retroattivamente un tassello così importante della propria storia appare assurdo, fuori dal tempo, goffo, un vero e proprio caso di voler “fermare il vento con le mani”.

Problemi di narrazione e di status

Allora, sia chiaro: qui nessuno ragiona contro l’opportunità di una corporation di tutelare sé stessa e le sue proprietà, né si fa facile moralismo pensando di poter dire che aziende come Take-Two debbano diventare comuni di hippie permissivi.

Il problema è che spesso queste pratiche di “autotutela”, fuori dalla storia (come dicevmo poco fa) diventano una sorta di gabbia autonarrativa, una costruzione blanda negli obiettivi e rigida nei fatti, al tempo stesso. L’impressione che le corporation danno in questi casi sono di protagonisti assoluti dell’industria che tuttavia continuano a non voler avere totale contatto con la realtà in cui vivono, a non volersi relazionare in modo ragionevole con le fanbase che li forgiano. E questo è grave, perché significa non avere idea di parte della propria identità.

Si fa prestissimo ad apparire come giusti e implacabili difensori del proprio core business, ma se il rischio è quello di apparire ridicolo ne vale davvero la pena?

This post was published on 3 Agosto 2021 15:03

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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