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Sei Stati U.S.A. dichiarano guerra ai “computer inquinanti”

In un mondo che ha ormai accertato che i nostri consumi di elettricità impattino sull’inquinamento, non sorprende che sei stati U.S.A. abbino adottato una legge che sostanzialmente limita l’acquisto di una serie di PC colpevoli di avere caratteristiche di consumo troppo inquinanti.

Sì, è un provvedimento spiazzante, ma California, Colorado, Oregon, stato di Washington, Hawaii e Vermont hanno introdotto questa nuova legge, che si badi, non è un “divieto di utilizzo di PC troppo potenti”, ma la messa al bando di tutti quegli apparecchi, come gli Alienware, che già all’uscita dalla fabbrica consumino troppo per caratteristiche di fabbricazione.

La legge si basa sul così detto Expandibility Score, e tiene conto per lo più dell’attività delle macchine quando in modalità sleep o ibernazione. Ovviamente, ciò non significa che non si può possedere una macchina del genere, ma che ne è vietata la vendita in blocco. Per ovviare a ciò un utente dovrà pertanto acquistare le parti del PC separatamente e costruirsi un PC da gioco di fascia alta.

In pratica, una soluzione di ripiego verso quella che sembra una norma più che altro per “salvare la faccia” di fronte a un problema molto serio (“Non si può vendere una cosa che grava troppo sui consumi di elettricità e dunque sull’inquinamento atmosferico”), ma che sembra non tenere conto di tutta una serie di questioni molto profonde che legano a doppio filo intrattenimento elettronico e global warming.

Videogiochi e inquinamento: non una novità (purtroppo)

E’ ovvio che l’iniziativa dei sei stati statunitensi lanci un segnale in una direzione virtuosa, prendendo coscienza di una parte del problema che va a impattare anche sul processo di produzione e distribuzione dei PC (non a caso, se oggi abitaste alle Hawaii e provaste a ordinare un PC incriminato vi ritrovereste un bannerone che segnala l’impossibilità dell’acquisto).

La cattiva è che in realtà i problemi sono davvero tanti altri: dal packging dei componenti, al consumo di risorse da parte dello streaming e dei download di giochi o film, al costante utilizzo dei dispositivi in modalità sospensione (vedi sopra, in merito, si consiglia questo bel report di The Verge dello scorso anno).

Per esempio, fa riflettere il fatto che l’uso dell’elettricità dei dispositivi di gioco stessi sia stimato a 34 terawatt-ore di energia ogni anno, o l’equivalente di 5 milioni di automobili. E fa ancora più impressione la possibilità che le infrastrutture di internet possano essere sommerse, nei prossimi 15 anni (colonna portante del gaming moderno), a causa dell’innalzamento delle acque.

E guardate, si tratta solo di un paio di tematiche, perché il problema è vastissimo tanto quanto lo è il tema delle contromisure messe in campo dai singoli studi-anche piccoli-per contrastare certe emergenze.

Il problema sembra quindi essere lo stesso che troviamo in tutti quanti i settori di consumo altamente inquinanti: il nostro modus vivendi, le nostre abitudini, il nostro rapporto con le tecnologie dell’intrattenimento. E guardate, per certi versi questo è anche un settore messo peggio di altri. Pensiamo alla pandemia e ai suoi effetti.

Una grande verità in merito ai mesi dei lockdown più ferrei, come quello adottato dal governo italiano fra marzo e maggio del 2020, è che abbiano dato al nostro pianeta qualche settimana di respiro dallo smog e dall’inquinamento atmosferico, per la ridotta circolazione delle automobili. Peccato che, proprio in quelle settimane, migliaia di persone si siano ritrovate a poter passare la giornata solo guardando film su Netflix o a giocare online. Capite che che, al di là dell’affezione o meno a certe tematiche (chi scrive non può dirsi un “ambientalista militante”), il problema esiste ed è profondo.

Tanto profondo da richiedere tempo e abitudine, senza per favore fare la lista dei desideri. Le raccomandazioni possono essere sempre poche e di buon senso. Non “Non giocare” o “Giocare poco”, ma spengere la console quando finiamo. Non “Non usare lo steaming h24” a prescindere, ma avere in mente che possiamo dosarne l’uso e capire che non si tratta di una risorsa infinita.

Magari, al livello di stampa e informazione nel campo (e si parla di giganti statunitensi dai quali dipende l’agenda setting del settore), male non farebbe focalizzare l’attenzione su questi limiti strutturali oggettivi e farne parte del dibattito. E a quel punto, sperare che sempre più utenti si rendano conto di tutti i nodi della rete e aiutino a districarli. Ma che sia chiaro: al momento, la situazione è quella di un circolo vizioso dal quale ci muoviamo e ci muoveremo con grande fatica.

This post was published on 29 Luglio 2021 14:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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