L’annuncio del remake di Dead Space, arrivato giovedì scorso durante l’EA Play con un teaser trailer tetro e affascinante, è stato fra le bombe di questa discreta estate di annunci videoludici, se non altro per il coraggio di riprendere una licenza di più di dieci anni fa e farne un rifacimento completo.
In un momento storico che ci ha ormai abituato a operazioni di rilancio di brand attraverso remastered interessanti, come quella di Mass Effect, l’operazione di Dead Space colpisce per la sua radicalità, e soprattutto per il fatto che a quanto pare avrà dei contenuti inediti scartati nel gioco originale.
Si parla di un vero e proprio reinserimento di elementi tagliati all’epoca. Queste le parole del creative director Roman Campos-Oriola:
“Abbiamo iniziato con il level design originale dell’originale Dead Space. La cosa divertente è che si possono vedere alcune delle iterazioni che sono state tagliate prima del rilascio. Nel primo capitolo, si possono vedere alcuni corridoi che volevano inserire prima in un certo modo, e si può capire perché lo hanno cambiato per vincoli tecnici.”
Non sappiamo che tipo di contenuti sappiamo, e non sappiamo se queste cose avranno un impatto sul gameplay, ma la questione sembra particolarmente affascinante per un fatto in particolare: queste variazioni potrebbero modificare anche l’impatto in termini di paura insito in Dead Space?
Si tratta di un discorso molto poco scontato, che potrebbe fare di Dead Space e di operazioni analoghe (pensiamo a un ritorno in auge di Silent Hill) tutto fuorché i soliti remake.
A differenza di altre, quella di Dead Space potrebbe essere un’operazione molto più delicata di quel che pensiamo, data la sua natura survival horror.
Oh, intendiamoci: non è la prima volta che un classico del terrore subisce un rifacimento completo, e i remake di Resident Evil 2 e 3 hanno già scritto un pezzo importante in quel discorso. Molto tempo fa inoltre, due giochi come Alone in the Dark: A New Nightmare e Alone in the Dark del 2008 hanno operato dei reboot di un classico dei primi anni ’90.
Quindi no, Dead Space non ha certo primati di qualche tipo.
Anzi, a dirla tutta è quasi straniante dar credito a un remaake di un gioco che tutto sommato ha solo tredici anni.
E tuttavia, proprio perché così “giovane” rispetto a un Resident Evil, Dead Space potrebbe una rivisitazione essere interessante da giocare, anche per cultori del genere.
Del titolo sappiamo molto poco, ma il fatto che sia stato progettato per next gen aiuta a farsi qualche idea interessante in merito a ciò che vorrà essere.
Per esempio, implementare il feedback aptico di PS5 (sempre che venga inserito) in un gioco “sensoriale” come un horror ambientato nello spazio più claustrofobico e survival che ci sia-un’astronave-lascia intravedere i margini per un’esperienza probabilmente rispettosissima dell’originale, ma che punta a rivederne alcuni concetti.
Perché questo è particolarmente interessante?
Perché l’horror, il survival horror, è forse uno dei generi che più gioca sullo sfruttare la tecnologia per giocare con le sensazioni del giocatore.
Un gioco come Dead Space, dieci anni fa, appariva come un’ottima risposta sci-fi/horror a Resident Evil o Silent Hill, con meccanismi del terrore legati a doppia mandata al sistema di shooting. Oggi si può osare molto di più, si può far sposare quelle meccaniche con nuove modalità di narrare la paura e farcela provare.
La profondità di campo data dagli schermi contemporanei potrebbe permettere ai programmatori di giocarci brutti scherzi visivi, l’audio tridimensionale può farci arrivare nelle orecchie suoni che spereremmo di non udire mai e il feedback aptico (vi prego, non prendetemi per un estremista Sony) farci provare la spiacevole sensazione di toccare qualcosa che non vorremmo mai sfiorare.
Il punto di fondo di un discorso del genere non è tuttavia questo, non è se il remake di Dead Space sia o meno interessante o necessario.
Il punto è che può aprire a una moda, e a una moda che riguarderà il suo genere di riferimento.
Appurato che il gioco sarà una sorta di attualizzazione di un classico con caratteri più moderni e utilizzando delle features impossibili da implementare tecnicamente, un’idea del genere potrebbe essere applicata con una marea di brand horror del passato, dal citato Silent Hill (arriverà? Speriamo) a un Siren o un a chissà quale (in)dimenticato brand di dieci o vent’anni fa.
A dircelo è anche la storia di un mercato analogo a questo, quello del cinema del terrore, in cui a volte la riproposizione di franchise storici dopo decenni non è stata solo un’abile mossa commerciale, ma anche un’interessante occasione per rileggere il passato in modo attuale.
Un esempio felice da portare è Halloween di John Carpenter: a un classico del genere horror, costruito sul thrilling di derivazione hitchcokiana, nel 2007 il regista Rob Zombie rispose con un gigantesco slasher “sporco e cattivo” che rileggeva in maniera estrema e sanguinolenta il materiale d’ispirazione rendendolo ancora più epico.
E l’effetto fu molto molto valido.
Questa cosa è pensabile nel videogioco? Secondo chi scrive sì, ed è il caso di Resident Evil a dircelo: di fatto, con l’eliminazione della telecamera fissa nel remake di RE 2 e 3 Capcom ha fatto più o meno quel che nel cinema horror è cosa di tutti i giorni, spogliandoli dell’epica da zombie movie survival per costruire serrati action con inserti dark.
Vista sotto questo punto di vista, in casi del genere la parola “remake” acquista tutto un altro senso, e non è un caso che con Dead Space EA abbia optato per questa formula e non per la semplice remastered, come con Mass Effect: qui l’obiettivo finale sembra infatti essere riscrivere le regole del gioco per reinventare la paura, e non una semplice scusa per un restyling tecnico.
Funzionerà?
Incrociamo le dita.
This post was published on 26 Luglio 2021 14:00
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