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Skull & Bones è finalmente in alpha (fra crisi d’identità e ambienti di lavoro tossici)

C’è qualcosa di peggio di un gioco fiutato da tutti come “giusto” e “necessario”, ma che si perde in un development hell di quelli brutti-brutti a base di problemi di “identità di gioco” e peggio ancora comportamenti tossici? Purtroppo è esattamente quel che sembra essere successo a Skull & Bones, attesissimo action open-world multiplayer di Ubisoft Singapore che secondo le idee della multinazionale madre doveva rappresentare l’esperienza piratesca videoludica definitiva. Previsto per il 2019, il gioco venne reebottato improvvisamente a un passo dal lancio e rinviato al 2020/21, con una finestra prevista per i primi mesi del 2022.

Si tratta però solo della “punta dell’iceberg” di un processo produttivo a dir poco avventuroso, che sembra essere stato caratterizzato da un ennesimo, triste caso di comportamenti scorretti in casa Ubisoft.

Ma andiamo con ordine.

Skull & Bones fra AC Black Flag e propositi ambiziosi

Il ritardo di Skull & Bones appare assurdo, principalmente per un motivo: di fatto, non doveva essere altro che un calco stand-alone di Assassin’s Creed IV-Black Flag, titolo cross-gen uscito nel 2013 che portava la saga degli Assassini nei Caraibi implementando una spettacolare meccanica di navigazione fra le isole dell’arcipelago centroamericano e la gestione della propria ciurma pirata. In Black Flag vestivamo infatti i panni di Edward Kenway, assassino dedito alla pirateria che scorrazzava fra atolli paradisiaci e forti spagnoli in cerca di ricchezze e dell’ennesimo modo per sconfiggere i Templari.

Uscito dopo l’incerto e stanco Assassin’s Creed III, Black Flag non fu certo un gran capolavoro, ma ebbe due meriti: dimostrò le potenzialità della saga anche oltre quella che era stata la serie “fondativa” incentrata sulla storia di Desmond Miles e tentò con successo di inserire delle meccaniche nuove nella serie. Alcuni di questi elementi erano in realtà già stati anticipati da sezioni di AC III, ma nel quarto episodio della serie Ubisoft decise di farle “esplodere”, sfruttandole a dovere in un gioco che ci vedeva nei panni di un capitano pirata capace di mutare il classico schema di AC in qualcosa di molto più accattivante.

Il gioco ebbe successo, e l’intuizione di un “open-world con i pirati” non poteva non far scattare a Ubisoft l’idea di prenderla e costruirvi sopra qualcos’altro. All’inizio in realtà Skull & Bones doveva essere un update post-lancio, ma l’idea era davvero troppo ghiotta per non farne la base per un nuovo gioco e, perché no, magari un nuovo franchise.

E se ci pensiamo l’idea funzionava, e avrebbe funzionato, soprattutto perché avrebbe permesso di avvicinare un pubblico magari affascinato dal gameplay ma non da Assassin’s Creed (tipo chi scrive).

E invece? E invece, è subentrato altro.

Development hell fra i pirati

Che è successo?

Da un lato, Skull & Bones sembra il classico esempio di un gioco nato con un’ambizione modesta (supportare attraverso l’online Black Flag) a sfociare in qualcosa di bellissimo, ma con un tallone d’Achille: la mancanza di una chiara identità.

Secondo oltre 20 sviluppatori attuali ed ex Ubisoft, S&B ha sofferto di una mancanza di concept chiaro, di cattiva gestione, di reboot annuali, e apparentemente non c’è mai stata una “chiara visione creativa” dietro esso.

Nel corso degli anni, lo sviluppo si è fermato o cambiato in più di un’occasione a causa di feedback dalla società Ubisoft, nuovi manager, cambiamenti di personale e altri problemi di sviluppo. Allo stato attuale, il gioco è al suo terzo direttore creativo, e si spera che le cose progrediscano in modo più positivo da qui in avanti.

“Nessuno vuole ammettere di aver fatto una cazzata”, ha detto uno sviluppatore. “È troppo grande per fallire, proprio come le banche negli Stati Uniti”.

Uno sviluppatore ha persino paragonato la saga di Skull & Bones ad Anthem di Bioware, il che è tutto dire.

E se questo primo problema sembra grosso, grossissimo, un secondo appare assolutamente devastante.

Sembrai infatti che le condizioni interne di Ubisoft Singapore siano state per molto tempo caratterizzate da razzismo e abusi, e anche spudorati, a quanto fuoriuscito dagli ex-impiegati: si parla di una dirigenza-nella figura del francese Hugues Ricour-che operava disparità fra sviluppatori locali ed europei (agevolati) fino ad arrivare al limite del razzismo, nonché di casi di pressioni sessuali, bullismo,

Una condizione che ah portato ovviamente alla rimozione di Ricour e a un nuovo director a fine 2020.

E a oggi, all’alpha di Skull & Bones dopo otto anni di sviluppo.

Tanto maledetto quanto necessario

L’esito finale di una storia del genere è stato che Skull & Bones non ha impiegato molto tempo a essere definito un “gioco maledetto”, vittima di un processo produttivo assurdo soprattutto perché in mano a una multinazionale, Ubisoft, maestra della filosofia “sfornare giochi nuovi a ogni costo e con buon successo”.

Al di là della terribile situazione di abusi, non giustificabile e portata avanti con modalità sfacciate, lo sviluppo di S&B sembra una gigantesca anomalia in un’industria che fa della “certezza” un tassello fondamentale, soprattutto ad alti livelli come quelli di Ubisoft.

Partire con un’idea di gioco debole, sviluppandola in modo impacciato per otto anni, sembrerebbe qualcosa proprio di studi magari non più piccoli, ma senza dubbio più inesperti. Prendiamo il caso CD Projekt Red con Cyberpunk 2077. Sia chiaro, è grave, lo sviluppo si è palesemente basato su obiettivi non chiari, e su un’ambizione che si è scontrata un’inesperienza e forse una incoscienza arrogante di fondo, ma CD Projekt era al suo secondo kolossal e probabilmente pagherà errori tanto chiari.

Ma Ubisoft non è CD Projekt. Ubisoft, di solito, sa dove colpire e come, sa anche di potersi permettere risultati non perfetti, ma arrivando comunque e sempre a un obiettivo di fondo e gestendo bene i progetti. Il fatto che un prodotto praticamente già pronto come Skull & Bones, basato su un gameplay già rodato, già apprezzato e persino con una fan-base già pronta, rischi di naufragare in questo modo, è monito di quanto certi modelli produttivi appaiano divenuti tanto enormi da mostrare veri e propri punti deboli.

Un fenomeno tanto inusuale da apparire quasi affascinante, capace di mettere in guardia sull’apparente forma di granito di certi colossi.

This post was published on 22 Luglio 2021 14:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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