Quando lo scorso inverno Zack Snyder ha fatto uscire la versione definitiva del suo Justice League, kolossal supereroistico dalla travagliatissima storia, nel mondo del videogioco un brivido e una domanda sono corsi giù per la schiena di molti appassionati: e se anche Hideo Kojima, venerato autore di Metal Gear Solid, facesse uscire una director’s cut del quinto episodio della serie, The Phantom Pain, uscito tristemente monco a causa di un doloroso processo produttivo?
La domanda sembrava essere caduta nel dimenticatoio, ma è tornata in bocca a molti nei giorni scorsi, all’improvviso, quando Hideo Kojima ha twittato in merito al suo parere sullo Snyder’s Cut argomentando varie opinioni in merito. In poco tempo, quello che sembrava essere un tipico attestato di riconoscimento cinefilo da parte di Kojima ha portato molti fan a ipotizzare che Kojima San possa avere in serbo un “MGS V Cut”, pregandolo di mostrarlo.
Ora, fosse un fatto isolato e senza agganci con la realtà il tutto sarebbe derubricato a ennesima follia della fanbase kojimiana dopo il caso Abandoned (qui un’indagine sulla faccenda), non fosse che curiosamente nelle scorse settimane Sony sembra aver dato un assist incredibile a questo genere di ricostruzioni con l’annuncio di director’s cut di ben due suoi giochi: prima Death Stranding (di Kojima!) e poi, proprio negli scorsi giorni, di Ghost of Tsushima, entrambi per PlayStation 5.
Ma, prima di continuare a sognare una (difficilmente realizzabile) director’s cut di MGS, una domanda ci sorge spontanea: ma che diavolo dovrebbe essere una “director’s cut” di un videogioco? E qual è la sua differenza con una più canonica “Definitive Edition”? L’utilizzo di questa parola è solo follia modaiola?
Forse no.
Il momento delle director’s cut
Partiamo da un punto fondamentale: le “edizioni speciali” di videogiochi, contenenti al loro interno “più roba” (più cutscenses, più livelli, più personaggi) sono roba antica, antica quanto l’ascensione del videogioco a opera/prodotto di largo consumo.
Solo per fare qualche esempio, non possiamo che ricordare proprio il trattamento editoriale riservato alla saga di Metal Gear Solid: sia l’episodio originario del 1998, sia il suo immediato sequel del 2002 che il terzo episodio (2005) hanno avuto edizioni post-lancio che aggiungevano contenuto di vario tipo, a volte riservate soltanto ad alcuni mercati. Operazioni, insomma, che volevano migliorare il prodotto uscito nei negozi espandendolo e rendendolo più appetibile anche verso i giocatori che hanno acquistato al day-one e che vogliono omaggiare o approfondire un gioco particolarmente amato.
Si tratta di una pratica logica, anche da un punto di vista produttivo.
Quando hai in mano grandi progetti come questi, con tante idee per opzioni e contenuti giocabili e-ahinoi-una scadenza di uscita ben precisa, devi fare delle scelte e tagliare, magari in vista di una seconda edizione successiva. Un processo che il videogioco condivide con un suo parente “diverso ma simile”, il film, che prima con l’avvento delle VHS e poi dei DVD/Blu-Ray è stato portato nelle nostre case in edizioni estese, rielaborate, rimaneggiate.
Nel caso del videogioco, queste operazioni vengono chiamate spesso “edizioni definitive”, “deluxe”, “speciali”.
Perché allora solo oggi giochi come Death Stranding o Ghost of Tsushima hanno mutuato un termine più specifico e strutturato come “director’s cut”, che chiama in causa la personalità del game director, le sue scelte e la sua visione?
Lo scopo è semplice, e al contempo complesso.
In un momento storico in cui un certo tipo di videogioco (esempi: il citato Death Stranding, The Last of Us Parte II o anche God of War) rende la componente narrativa un punto imprescindibile della propria offerta, a essere messo in evidenza in un’eventuale “edizione speciale” non è più il contenuto giocabile, ma quello poetico, le scelte narrative del director e del comparto sceneggiatura, che potrebbero vedere delle aggiunte rilevanti in questa seconda uscita.
Per esempio, fa notare il redattore Cian Maher (firma di The Verge, Vice, Wired e The Washington Post) che Death Stranding è un’opera che si adatta molto bene al concetto di director’s cut: è storia complessa, ricca e pregna di significati, e in essa anche solo una scena di raccordo o mezz’ora di giocato in più possono dare un fondamentale contributo al rafforzamento degli obiettivi comunicativi di Hideo Kojima.
Tuttavia, non per tutti i giochi è così. Per Ghost of Tsushima per esempio l’idea che sorge è che l’aggiunta di nuovo contenuto potrebbe tradursi semplicemente in nuovo giocato.
Allora perché usare il termine “director’s cut”?
Se nel caso specifico la scelta sembra avere un senso per la forte ispirazione di Ghost of Tsushima al genere chambara (quello portato avanti da Kurosawa, per intenderci), in generale quest’inseguimento linguistico sembra avere un altro obiettivo: esso nobilita il videogioco, utilizzando una terminologia legata a un medium socialmente accettato come il cinema per qualcosa di “minore”. È una mutuazione di un concetto già diffuso da tempo che viene ripreso da produttori, developers e anche fan per dire “Il videogioco è una cosa seria”. Al tempo stesso, tuttavia, mettendo il videogioco accanto a un lontano parente si rischia di ricevere l’effetto opposto, con la banalizzazione e il non approfondimento di una serie di concetti peculiari del medium.
Per esempio, “director’s cut” in ambito cinematografico presuppone il mettere mano a una sequenza di scene lineari, la cui alterazione cambia il significato del narrato.
Nel videogioco-medium solo in parte lineare, e non sempre-il taglio di contenuto agisce su più livelli e più dimensioni parallele, a volte non toccando minimamente il narrato e agiscono sull’architrave del gameplay. Dato ciò, “director’s” cut appare quindi una scelta linguistica davvero povera, per fotografare appieno l’importanza dell’operazione.
E allora? Se l’idea di questo inseguimento del cinema attraverso una terminologia stiracchiata sembra fuorviante e svilente, come avvicinare sempre più il videogioco ad arti più “socialmente accettate”?
Abbiamo un’idea.
Meno director’s cut, più voce agli autori
Banalmente, affinché il videogioco cominci a essere visto in maniera matura e adulta da sempre più persone (soprattutto quelle “non addentro”), l’industria dovrebbe prodigarsi per dare ai giocatori non come meri prodotti commerciali da inserire nella propria console, ma opere dotate di edizioni curate e complete che ne raccontino l’importanza.
Meno director’s cut (a meno che non si tratti davvero di quella-necessaria-di un Metal Gear Solid V), più edizioni con contenuti speciali che approfondiscano il gioco, diano spiegazioni della sua importanza, voce a sviluppatori, sceneggiatori, compositori e directors.
Sì, edizioni di questo tipo esistono e hanno avuto una bella fioritura nel corso degli ultimi a vent’anni, ma sempre più spesso ci siamo ritrovati con giochi autoriali e complessi come Red Dead Redemption II non coadiuvati al loro interno dalle voci dei loro autori, da coloro che li hanno creati.
Pensate a quanto questa cosa sia un’occasione persa. Pensate a quanto sarebbe bello, un giorno, avere un “commento del director” che parta in determinate sequenze e spieghi il perché di certe scene-cosa diffusa in vari giochi nipponici, ma non di pubblico dominio e poco implementata rispetto al suo potenziale. Pensate a quanto sarebbe interessante sentire la voce di Neill Druckmann o Cory Barlog raccontare scelte registiche, narrative e soprattutto di gameplay. Pensate a quanto sarebbe piacevole inserirlo come “tracce nascoste” sbloccabili solo affrontando qualche area di gioco secondaria, dando al giocatore un motivo in più per portare a termine una run approfondita. Pensate a quanto, ai fini del corretto “dialogo” con gli autori, sia interessante guardare un caro e vecchio making of che segua lo sviluppo dei giochi e faccia capire che dietro essi c’è un’idea, un concetto, un obiettivo da perseguire.
Va detto che spesso questi contenuti speciali finiscono all’interno delle campagne marketing grazie al lancio su YouTube o su alcuni store, e che si tratta di documenti ben costruiti e interessanti-è il caso di Raising Kratos, epico documentario di quasi due ore sulla realizzazione del God of War 2018-ma relegati in una funzione di pura promozione, di cornice al lancio.
Sarebbe invece interessante trattarli come contenuti di approfondimento che il giocatore può consultare per comprendere meglio un passaggio, analizzare con occhi differenti il gioco ma, soprattutto, immedesimarsi in coloro che rendono possibili le nostre avventure e che spesso vengono visti come distanti figure dietro le quinte o tutt’al più santoni intoccabili che rilasciano interviste di tanto in tanto.
Quindi, cari producer, okay le director’s cut, okay i contenuti speciali in termini di contenuti giocabili inseriti dopo tagli vari, ma se volete dimostrare di costruire opere importanti e far vedere quanto non sfigurino di fronte a media più consolidati dovete raccontarlo meglio, e con i giusti mezzi, e con la giusta ambizione.
Altrimenti ci troveremo di fronte sì a splendenti nuovi pezzi di storia da giocare, ma senza dare il giusto peso a splendide occasioni di far capire quanto il videogioco sia un medium stratificato, ricco, appassionante, da scoprire.