In questo articolo si accenna in modo sintetico alla narrativa di alcuni giochi. Saranno comunque evitati spoiler espliciti sui finali o gli snodi narrativi principali.
In questi mesi stiamo facendo i conti con forme più o meno gravi di reclusione e distanziamento dalle persone care. L’attualità offre all’arte spunti di discussione innumerevoli, dalle questioni sanitarie a quelle politiche, dal dibattito sulla difesa della privacy a quello sulla mancanza o meno di senso civico.
La videoludica ha risposto con una prontezza quasi incredibile: difficilmente Death Stranding (2019), opera prima di Kojima Productions, sarebbe potuto essere pubblicato in un periodo più adatto. Si tratta di un gioco in cui il cuore di gameplay e narrativa ruota attorno al concetto di connessione, di ricostituzione di un legame perduto tra persone isolate le une dalle altre, un gioco che fa del tema dei legami umani la propria ragion d’essere.
Personalmente ho esperito il titolo proprio durante il lockdown nazionale di marzo 2020, vivendo un’esperienza particolarmente intensa. Prima di indagare più approfonditamente l’opera di Kojima – e di parlare di cinema – andiamo però a recuperare due titoli più anziani, che hanno affrontato ulteriori sfaccettature di questo tema.
I legami umani si costituiscono in primo luogo per un motivo pratico: sopravvivere. Un neonato abbandonato a sé stesso sarebbe spacciato, è dunque necessario che i genitori o chi per loro si occupino di lui, soddisfacendo tutti i suoi bisogni, dalla nutrizione alla protezione, dall’igiene all’educazione.
ICO, celebre opera del 2001 partorita dalla mente di Fumito Ueda e sviluppata appunto dal Team ICO, è il videogioco che più di tutti ha indagato il legame dipendente, strutturando attorno a questo concetto le proprie meccaniche di gameplay.
Nota storica: forse il primato temporale di gioco basato sull’idea di legame spetta nientemeno che al…Tamagotchi!
Ricordo ancora perfettamente l’avviso stampato sul retro della confezione del gioco: avvertiva come la morte del proprio animaletto potesse instillare sensi di colpa nel giocatore, suggerendo quindi che non fosse adatto a persone troppo sensibili.
In quel caso si trattava comunque di legame gioco-giocatore, declinazione che esula dall’analisi condotta in questo articolo, che invece è basato sulla presenza ed utilizzo del tema del legame umano internamente alla narrativa di gioco stessa.
Lo scopo del gioco è condurre il protagonista fuori dal magico castello in cui è stato rinchiuso, aiutando a fuggire anche la ragazzina Yorda, con cui entriamo fortuitamente in contatto nelle prime battute dell’avventura. Al contrario del protagonista, che si dimostra abile tanto nell’esplorazione quanto nel combattimento, Yorda è goffa nei movimenti e totalmente incapace di difendersi dalle creature d’ombra che fungono da antagoniste.
Le difficoltà che il gioco ci pone innanzi sono molteplici: avanzare nel labirintico maniero risolvendo enigmi ambientali, avere ragione delle ombre che ci assalgono ed assicurarci che Yorda non venga rapita dalle stesse. Non è raro che queste condizioni si presentino contemporaneamente, dando vita a rocambolesche sequenze di azione e reazione.
Yorda dipende dalle nostre azioni anche per quanto riguarda l’avanzamento all’interno del castello, poiché impossibilitata a superare terreni scoscesi o dislivelli eccessivi; spetta a noi agevolarle il cammino rimuovendo ostruzioni, aprendo nuovi percorsi o, nei casi più semplici, chiamandola e prendendola per mano.
Proprio a questi semplici gesti, così strani da applicare in ambito videoludico, è dedicato il tasto R1 del pad. Se me lo ricordo ancora dopo 19 anni, un motivo ci sarà: premere e tenere premuto quel tasto, con cui ci assicuriamo che Yorda non ci perda di vista o ci segua a stretto giro, era un’azione carica di significati emotivi.
Come giocatori siamo chiamati a prenderci cura di lei, a badare che non si faccia male, che riesca a raggiungerci, che non sia mai in pericolo. E quando le circostanze impongono di separarci momentaneamente per affrontare una porzione di mappa a lei inaccessibile, lo si fa con una punta di apprensione per averla lasciata da sola e la volontà di ricongiungersi il prima possibile.
Proprio come una madre produce grandi quantità di ossitocina subito dopo il parto per instaurare quel profondo legame affettivo che la predispone a prendersi cura del neonato, la sobria felicità con cui Yorda avvista Ico e gli si avvicina dopo essersi separata da lui per un po’ e la docilità con cui si lascia prendere e condurre per mano, fa scaturire nel giocatore la ferrea volontà di portarla in salvo.
Quello che inizialmente appare come un legame a senso unico, finisce per essere una dipendenza reciproca. Yorda dipende da Ico tanto quanto Ico dipende da Yorda: è la sua presenza a spronare il giocatore a completare l’avventura per trarla in salvo.
Passando ad una produzione più recente possiamo analizzare un legame simile, ma anche profondamente diverso: quello tra Ellie e Joel, protagonisti di The Last of Us.
Per i mammiferi la vita solitaria non è quasi mai garanzia di sicurezza e sostentamento: organizzandosi in branchi sono in grado, se erbivori, di difendersi più efficacemente da eventuali presenze ostili; se carnivori, di pianificare efficaci manovre durante le battute di caccia. In questi casi ciò che determina il successo e quindi la sopravvivenza del branco è la presenza di legami cooperativi tra i suoi individui. Del resto la cooperazione contraddistingue gran parte delle attività umane: cooperiamo fra noi anche senza conoscerci, perché sappiamo che l’attività del singolo sarà utile alla collettività e viceversa.
Il legame cooperativo è il fulcro di The Last of Us, sviluppato da Naughty Dog e pubblicato nel 2013. Anche qui abbiamo una coppia di protagonisti, un uomo adulto ed una ragazzina, che compiono un viaggio attraverso territori devastati da una piaga post-apocalittica. Come in ICO il giocatore si trova a fronteggiare fasi di esplorazione, risoluzione di enigmi ambientali e combattimento.
Sebbene alcune dinamiche che regolano il gameplay assomiglino all’opera di Ueda in quanto a rapporti di forza tra i protagonisti (Ellie sarebbe incapace di superare certe zone della mappa di gioco senza il nostro aiuto), in questo gioco la bilancia tende all’equilibrio: la ragazzina infatti non è un soggetto passivo degli eventi, tanto che buona parte della narrativa è incentrata sul suo percorso di maturazione, e si rivela utile a Joel tanto quanto lui lo è a lei. Oltre a dare manforte con commenti o azioni concrete nelle fasi esplorative, Ellie è una preziosa alleata in combattimento, fornendoci assistenza quando ci troviamo a corto di munizioni, segnalandoci la presenza di nemici che non abbiamo individuato per conto nostro, distraendo o attaccando direttamente alcune minacce.
Oltre a scardinare la retorica del gentil sesso come soggetto debole e ad incentrare per la prima volta una narrazione videoludica sull’evoluzione di un rapporto per così dire padre-figlia, il gioco ha il merito di tradurre il tema del legame cooperativo in meccaniche di gameplay, anche solo analizzando la campagna single-player (c’è infatti anche una componente multiplayer che prevede modalità sia cooperative che competitive).
ICO e The Last of Us fanno dei legami umani sia un fondamento narrativo sia un fondamento di gameplay. In entrambi i casi il legame è trattato in senso individuale (riguarda principalmente due persone) ed ha sempre valenza positiva, sia a livello narrativo (il legame è fonte di speranza e risoluzione delle difficoltà) sia ludico (il legame è alla base delle meccaniche che consentono di finire il gioco). Cosa succede se si superano questi limiti? Se si estende il legame umano oltre l’individualità e lo si studia anche in ottica negativa? Succede Death Stranding.
I legami tra le persone sono alimentati dalla comunicazione. Come insegna un noto assioma, “non si può non comunicare”. Attraverso questa attività l’uomo trasmette informazioni da un individuo all’altro, permettendo fenomeni quali l’insegnamento e l’apprendimento, lo studio e la ricerca, in breve: il progresso. Oltre ai legami forti, sviluppati tra noi ed i nostri cari, l’uomo contemporaneo è connesso virtualmente con tutta la sua specie grazie ad un legame di rete: si tratta di un legame pervasivo, presente in ogni tempo e luogo, dalle tali potenzialità che ormai tremiamo al pensiero di vivere senza. Del resto, privarci di Internet renderebbe il periodo storico che stiamo vivendo ben più arduo da affrontare.
Death Stranding è arrivato nei negozi l’8 novembre 2019, in coincidenza con i prodromi di ciò che pochi mesi dopo avremmo riconosciuto come pandemia e che ha obbligato molti paesi al lockdown. E proprio alla necessità di riconnettere un mondo frammentato in tante cellule isolate a causa di una catastrofe siamo chiamati dalla narrativa di gioco.
Ricostituire l’infrastruttura di rete in un territorio devastato, facendo opera di convincimento presso coloro che si ostinano a non volerne più sapere del resto del mondo: questa è l’attività che occupa la maggior parte del tempo di gioco, e si sviluppa attorno alla consegna di merci da un nodo all’altro di questa rete che siamo chiamati a ricostituire.
Ogni consegna andata a buon fine concorre al potenziamento della rete stessa, che amplia le possibilità di gioco, fornendoci nuovi oggetti, armi e possibilità costruttive. La desolata world map infatti può essere via via arricchita da artifici di nostra creazione, come ponti o strade che ne facilitino la navigazione, torri di osservazione che ne agevolino la scansione e molto altro.
Il numero ed il tipo di costruzioni edificabili aumenta proprio in virtù del potenziamento della rete, che permette un sempre maggior circolo di conoscenza ed il conseguente accesso a saperi altrimenti perduti. Il legame pervasivo, dunque, combatte l’oblio, consentendo invece la salvaguardia e la diffusione della conoscenza.
Eppure la narrativa non manca di sollevare problematiche di ordine etico e morale: quanto è giusta la nostra opera di convincimento nei confronti di chi ha scelto per sé una vita lontano da quella società che è stata forse artefice della sua stessa rovina? Sam, il protagonista del gioco, se lo chiede di continuo e noi con lui. Sam è tormentato da dubbi circa lo scopo della sua missione e l’avanzamento della trama di gioco porterà numerosi colpi di scena a riguardo.
Il legame pervasivo, sembra dirci Kojima, è probabilmente più positivo che negativo, e forse anche inevitabile ed irreversibile; non bisogna però sottovalutarne i pericoli, a partire dalla possibilità della manipolazione dell’informazione da parte di chi ha il controllo della rete stessa.
Come accennato, il legame pervasivo permea quasi ogni meccanica del gameplay di Death Stranding: tramite il legame tra Sam ed il suo BB, un neonato contenuto in un capsula e dotato di poteri speciali che non approfondiremo, il giocatore può mappare il terreno di gioco e localizzare i nemici. Ci sono sia creature umane che “soprannaturali” ad ostacolarci: anche queste ultime sono vincolate al nostro mondo tramite un misterioso legame, che avanzando nel gioco avremo la possibilità recidere per eliminarle più velocemente.
In questo gioco i legami sono anche trascendenti, cioè mettono in comunicazione il nostro piano materiale con altri tipi di realtà. È interessante notare che nel mondo di gioco non ci sia alcun accenno alla religione, come se qualunque credo fosse ormai svanito, nonostante la presenza dei fenomeni suddetti. Aver tralasciato in toto questo aspetto può essere giudicata una lacuna non indifferente, ma va detto che si tratta di una semplificazione forse necessaria a mantenere una certa coesione tematica nello sviluppo della narrazione.
Death Stranding è costruito interamente sull’idea di legame: dalla premessa narrativa al design di personaggi e creature, dalle meccaniche di esplorazione e combattimento al multiplayer asincrono. Tutto è connesso, ed è ciò che consente ad un’opera di fantascienza distopica di essere così attuale e di poter raccontare in chiave futuristica le paure dei nostri tempi.
Non è questa la sede per scandagliare l’intera storia del cinema e della tv alla ricerca di tutte le opere che hanno affrontato il tema dei legami umani. Mi limito a suggerire tre esempi famosi, che dimostrano come la comparazione di media differenti arricchisca enormemente l’analisi di un tema, inquadrandolo da prospettive sempre nuove.
Band of Brothers, serie del 2001 prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks, ricostruisce le vicende della Easy Company, impegnata sul fronte europeo della Seconda Guerra Mondiale. Oltre ad essere probabilmente la più realistica messinscena di guerra mai realizzata, specie nelle sequenze di combattimento, la serie riesce in modo straordinario a raccontare il legame fraterno che si costituisce tra i compagni d’arme.
La condizione estrema in cui i soldati si trovano ad operare ed i massacri di cui sono vittime e responsabili fanno sì che possano contare solo gli uni sugli altri: quando si è feriti sul campo di battaglia, solo il compagno accanto a te ti può salvare. Solo lui può capirti, perché vive il tuo stesso inferno. Si tratta di un tipo di legame individuale difficilmente rappresentabile nella videoludica, dove è arduo riuscire a rappresentare un’empatia così forte tra i personaggi. Ma chissà che i moderni (e futuri) multiplayer online a tema militare non riescano ad istituire un po’ di cameratismo tra i compagni di squadra!
Il cavaliere oscuro, secondo capitolo della trilogia di Christopher Nolan dedicata a Batman, allarga l’orizzonte all’analisi del legame sociale. Più che Batman e Joker, incarnazioni estreme (e problematiche) di ordine e caos, la vera protagonista del film è la cittadinanza di Gotham City, stretta tra due fuochi: da una parte l’anarchico che vuol veder bruciare il mondo (ma ha bisogno di un’organizzazione, di un seguito criminale per farlo), dall’altra il giustiziere solitario che proprio in nome della giustizia agisce al di fuori di essa e delle istituzioni.
Il film rappresenta la minaccia di dissoluzione del legame sociale in un contesto di scoppio di crisi, e la sua ricostituzione proprio nella sua ora più buia. Il riferimento è alla sequenza di lotta finale tra Batman e Joker che, senza fare spoiler, può risolversi solo con un’azione precisa da parte di un gruppo di ostaggi, incarnazione di tutti gli strati sociali della cittadinanza, che avviene contro ogni pronostico. Una lezione utile anche per i nostri tempi, in cui ciascuno è chiamato a fare la sua parte per superare l’emergenza, anche semplicemente rispettando le regole.
Molti dei legami più importanti della vita ci sono imposti: non scegliamo né la famiglia né il paese in cui nascere, e dobbiamo confrontarci con entrambi questi fattori, magari anche decidendo di separarcene. Alla base della definizione delle identità individuali sta quindi la nostra libertà di scegliere quali legami instaurare e quali no: proprio in questa libertà decisionale si sostanzia l’autodeterminazione.
Il legame consapevole: è questo il tema centrale di Matrix (1999), capostipite della trilogia e dell’intero franchise delle sorelle Wachowski, la cui scena madre ruota attorno alla scelta del protagonista Neo di inghiottire la pillola blu o la pillola rossa, ovvero di istituire o meno un legame con il personaggio di Morpheus, il quale potrà mostrargli un nuovo punto di vista sulla realtà (per certi versi peggiore di quella in cui Neo è vissuto fino ad allora ma più consapevole) oppure continuare a crogiolarsi nella sua condizione di partenza, piatta eppure rassicurante nella sua banalità.
Si tratta di un tipo di legame quasi impossibile da affrontare in ambito videoludico, dato che quest’ultimo istituisce per definizione un ambiente di gioco che pre-esiste al giocatore, il quale deve adeguarsi alle sue regole per poterlo fruire. L’unica opera che sia riuscita in questa impresa è The Stanley Parable (2013) di David Wreden, che è basato proprio sul rapporto dialettico tra giocatore, avatar e sviluppatore: lo scopo è proprio quello di lasciare il giocatore libero di scegliere se adeguare le azioni del proprio avatar alla versione offerta dalla voce di un narratore, oppure opporvisi facendo tutt’altro. La scelta, per una volta, è nelle nostre mani.
Cinema e videogiochi si possono comparare non solo tramite punti di vista puramente tecnici e teorici, ma anche di contenuti: si tratta di media che sono nella stessa misura arte ed intrattenimento, meritano quindi di essere approfonditi con la stessa dignità, poiché dalla fruizione di entrambi si può uscire enormemente arricchiti. Il consiglio perciò è quello di guardare e giocare il più possibile film e videogiochi di ogni genere, epoca e provenienza. Non si sa mai con quale titolo potreste instaurare il vostro prossimo legame!
This post was published on 22 Gennaio 2021 11:17
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