Sid Meier non è una persona normale, neanche se messo a confronto con altri game designer. Non è infatti così usuale che un responsabile creativo dei suoi progetti divenga tanto rinomato da mettere la sua firma accanto al titolo dei propri giochi, segno che le sue intuizioni, almeno nel momento d’oro della sua carriera, hanno di fatto fondato e formato un modo di creare videogiochi.
Suoi sono fra gli altri Civilization, Pirates, Railroad Tycoon e di altri titoli: Meier ha la fama di essere un autore a tutto tondo in grado di esplorare il videogioco come formato narrativo e di spremerlo al massimo per trovare sempre nuove innovazioni, soprattutto all’interno di generi “non pop” (almeno negli ultimi anni) come gestionale, strategico o simulativo.
Una carriera straordinaria, tale da potergli permettere di dare giudizi sull’industria del gaming e sul game design.
Anche “amari”, come nel caso di una delle sue ultime dichiarazione.
Non è più tempo di Civilization?
Proprio in queste settimane Meier è alle prese con una nuova opera, per quanto per lui inusuale: una biografia intitolata Sid Meier’s Memoir!, un volume nel quale racconta al mondo intero la sua esperienza di game designer e di pioniere.
Proprio nel corso di un’intervista di presentazione al quotidiano The Indipendent di qualche settimana fa, Meier è arrivato a dichiarare che oggi, nel panorama attuale del videogioco, non crede potrebbe pensare di sviluppare un prodotto come Civilization, né che potrebbe approcciarsi a un prodotto del genere da giocatore.
La ragione è presto detta: a suo dire, il tempo a disposizione dei giocatori è sempre meno e anche la pazienza non è certo il cavallo di battaglia della massa.
Come The Indipendent fa notare, si sta parlando di giochi davvero anomali anche da un punto di vista strettamente ludico, o perlomeno di giochi che oggi non possiamo definire tranquillamente “mainstream”: per quanto il genere sia ancora frequentato, è più difficile che un giocatore medio si abbracci un approccio di gioco nel quale l’ottica è tanto “assoluta” da metterci a capo di una civiltà nel corso dei millenni. Si parla, ovviamente, di giocatori medi, giocatori “casual” che comunque alimentano il mercato comprando ogni mese un nuovo gioco.
Ad aggiungere un elemento “di contesto” è poi lo stesso Meier, che nota come il ruolo del game designer sia evoluto da quello di innovatore, col compito di spingere le potenzialità del medium ad altri livelli, a quello di membro di un’industria. A essere cambiata sembra essere la mission, passata dal semplice “giochiamo a creare giochi e a metterci alla prova”, in un’ottica quasi romantica, al professionista con degli obiettivi “operativi”.
Obiettivi operativi che, stando a Meier, un gioco come Civilization non permetterebbe più di raggiungere.
Ere diverse
Se ci pensiamo, il confronto che Meier fa è fra due momenti storici del videogioco che sono estremamente distanti non solo a livello temporale, ma soprattutto di modo di concepire il videogioco.
Negli anni ’80 l’industria quasi non era un’industria, lo sviluppatore era molto più simile al concetto di “programmatore”, una figura in grado di piegare l’arte del coding alla creazione di giochi che comunque puntavano per lo più a meravigliare e soddisfare uno stormo di altri nerd affamati di concetti come simulazione e strategia. Certo, Super Mario e il gioco “mainstream” non erano lontani, ma senza dubbio c’era un altro modo di vedere il gioco e le sue implicazioni, con approcci magari più vicini a quelli di un autore di indie contemporaneo.
Al tempo stesso, il videogioco è evoluto in maniera inaspettata da quello che poteva essere una trentina di anni fa, assumendo non solo delle dimensioni straordinarie e inimmaginabili per gli anni ’80 e i primi anni ’90, ma anche un ruolo diverso in termini di intrattenimento: il suo pesante sconfinamento in campi che vanno oltre la dimensione del gioco, per entrare a tratti in quello della narrativa a tutto tondo, ha senza dubbio reso la dimensione simulativa meno forte e necessaria, portando il videogioco più vicino a un “film interattivo” (passateci il termine, molto ampio e complesso) che a un “gioco da tavolo virtuale” con decine di regole e parametri.
Persino i “luoghi” del videogioco domestico sono in parte mutati. E’ vero che tutt’oggi i PC gamer con splendide macchine da gioco nella loro stanza sono ancora una fetta consistente di utenti, è anche vero che, se negli anni ’90 l’immagine di un giocatore alle prese con uno strategico con il mouse in mano era facile da visualizzare, oggi non è così popolare o diffusa come quella di un ragazzo con il pad di Xbox in mano. Sono mutamenti di percezione del passatempo che, per quanto superficiali, dicono molto su come lo “spazio” del gaming sia mutato.
L’impressione è che ci sia stato un lento slittamento di qualcosa che all’inizio era innovazione verso la dimensione del “pop”, dell’accessibilità a tutti, dal quale se vogliamo derivano una serie di problematiche, ultima ma non utile quella di una più volte lamentata eccessivamente bassa difficoltà.
Parlando da giocatore, e da giocatore che ha da sempre frequentato un mercato dignitosamente sul confine fra mainstream e “di una certa nicchia” (rpg, third person shooters con componente narrativa, FPS), l’ultimo mio ricordo di una run a uno strategico in tempo reale è di almeno una quindicina d’anni fa-Age of Empires III- mentre il mio rapporto con Civilization non è stato altro che un fugace tentativo anni e anni fa, forse troppo precoce (età: 11-12) per dar vita a un interesse, per andare verso il “ventre pop” del medium di cui parlavamo sopra.
Il videogame si è dunque “snaturato” rispetto alle sue origini per andare verso la massificazione? Ed era davvero inevitabile che ciò avvenisse?
Una frattura insanabile?
La storia di qualsiasi medium destinato all’intrattenimento è strana e fatta di evoluzioni, battute d’arresto e cambiamenti di pelle, nonché ovviamente di meticciamenti fra cultura “alta” e “bassa”.
È vero per il cinema, passato da strumento d’indagine estetica a fine ‘800/inizio ‘900 a veicolo di diffusione di brand per l’industria consumista, ma anche e soprattutto per la musica.
In un certo senso, è vero anche per il videogioco, nel quale la popolarizzazione ha avuto effetti magari meno pesanti ma visibili fra le righe osservando l’evoluzione dei generi, la loro morte o la loro inattesa fortuna.
Certi giochi un tempo mainstream sono diventati di nicchia, e altri hanno avuto una rinascita tale da tornare in pista. Ed è anche vero che molti giochi ritenuti “per pochi” (come i grand strategy games, per dire) sono ancora al loro posto, fieri e con un pubblico.
Forse, per uscire da idee assolutistiche del tipo “I videogiochi sono più facili quindi più brutti!” “Una volta giocare era troppo difficile, quindi palloso!” occorrerebbe allargare lo sguardo e vedere lo sviluppo del medium in un’ottica organica, ricordandoci però che se un The Last of Us Parte II è diventato l’esperienza definitiva fra gioco e narrazione per immagini in movimento, quel successo sarà sempre figlio alla lontana di giochi “complessi” e per “nerd occhialuti” come Civilization II.
E, soprattutto, ripetendolo, spiegandolo e raccontandolo ai giocatori più giovani.
Ma questa è un’altra storia.