Per tutti i giocatori di vecchia data, Half-Life: Alyx-forse uno dei titoli davvero in grado di contribuire in pieno all’affermazione del VR- non rappresenta solo il ritorno sui nostri schermi di uno degli universi videoludici più fortunati e amati della storia del gaming moderno, ma anche l’ultima fatica di un team che ha fatto del binomio intrattenimento-innovazione tecnologica uno dei suoi tratti fondamentali. Un binomio che, stando a una interessante intervista a Gabe Newell apparsa su IGN, sembra destinato a farsi sempre più profondo e in grado di porsi obiettivi davvero notevoli.
Newell è sempre stato un creativo in grado di spingere il suo mezzo espressivo preferito verso nuove vie favorendo una singolare combinazione fra ricerca, definizione di nuovi canoni di gameplay e una narrativa capace di combinare il linguaggio del videogioco con quello del cinema.
Oggi, tuttavia, sembra in procinto di alzare l’asticella più che mai: parlando di Alyx infatti Newell non si limita a parlare delle potenzialità del VR, ma sembra suggerire come questo possa essere solo il primo stadio di un modello capace di mettere sempre più in collegamento il nostro cervello con i dispositivi tecnologici che utilizziamo attraverso la capacità di questi ultimi di simulare altri stimoli oltre a quelli visivi o uditivi (non rileggete, avete capito benissimo). Lo sviluppatore racconta infatti di aver seguito con molto interesse l’argomento, ragionandovi sopra e riflettendo su di esso.
Il suo responso dopo aver speso del tempo su questa ricerca? Eccolo, lapidario:
Siamo molto più vicini a The Matrix di quanto la gente si immagini.
Se ci pensiamo, sospendiamo un giudizio troppo critico e ci abbandoniamo a un po’ di entusiasmo tecnologico spicciolo, la tecnologia VR può essere perfettamente considerata il biglietto d’accesso perfetto per un “primo stadio” della gigantesca trappola virtuale descritta nel film con Keanu Reeves e Laurence Fishburne: accendiamo il nostro PC/console, ci mettiamo il visore, facciamo partire il gioco ed ecco che sospendiamo per un momento il nostro contatto con il mondo “reale” per inoltrarci in un altro, che non esiste.
E’ ovvio che questo non significhi avere a disposizione un'”immersività totale” in questo “altro mondo”. Manca infatti una tecnologia che permetta al nostro corpo di vivere le sensazioni del nostro alter-ego, siano esse fisiche (dolore, benessere, persino i sintomi di una malattia) o psicologiche (gioia, tristezza o rabbia). Un punto affrontato da Newell nel corso della chiacchierata con IGN, dove ha affermato di essere molto interessato ai collegamenti fra le macchine e la corteccia motoria e visiva del cervello umano, grazia ai quali potrebbe essere possibile indurre nell’utente sensazioni freddo o calore in modo artificiale (da brividi, vero?).
Newell si è però spinto ancor più in là aggiungendo di credere che qualsiasi forma di intrattenimento che non tenga conto degli sviluppi in questo campo di studi sia addirittura destinata “all’estinzione”.
Esagerazione o visionarietà? Come spesso in questi casi, solo il tempo potrà dircelo. Quello del videogioco come simulatore di vita altrui, in grado di farci entrare nella mente di un’altra persona, è un concetto utilizzato per dare un carattere peculiare a questo mass-medium (a volte anche in modo semplicistico). Se però è Newell, un pioniere, a riprenderlo, forse il momento di doverlo trattare con maggior cura e approfondimento potrebbe non essere lontano.
Sia chiaro, al momento quelle del game designer statunitense sembrano per lo più affascinanti claim lanciati al pubblico, anche se basati su studi in corso. E’ però altrettanto chiaro che si tratta di suggestioni che potrebbero diventare realtà e che un giorno persino costituire importanti tasselli dell’industria del gaming, e porre nuovi interrogativi: che succederebbe infatti se il videogioco diventasse sempre più una “simulazione dei panni di un altro” e sempre meno “esperienza ludica”?
Come cambierebbe la nostra percezione del videogioco nel momento in cui esso si apprestasse a diventare un dispositivo molto più simile a quello utilizzato da Arnold Schwarzenegger in Atto di Forza per vivere ricordi (e quindi vite) altrui che a una semplice opera di intrattenimento?
Le problematiche da affrontare sarebbero molte, moltissime.
Anzitutto, parlando di una tecnologia del genere, sarebbe giusto chiederci quanto questi stimoli simulati potrebbero essere efficaci e, in seguito, fin dove un programmatore dovrebbe spingersi nel ricrearli. Fino a che punto sarebbe lecito simulare il dolore per un colpo subito? Quanto queste sensazioni potrebbero impattare sulla psiche dell’utente? Come cambierebbe il rapporto del videogioco con l’opinione pubblica (purtroppo già claudicante)?
Sono problematiche che sembrano contenute se parliamo dell’universo mainstream, dove siamo sicuri che i controlli sarebbero a tappeto ma che dire dei possibili approcci a queste nuove tecnologie da parte degli indie, una fetta di sviluppatori non del tutto “controllabile”, almeno attualmente?
Chi scrive non vi nasconde di sentirsi un po’ bizzarro nel porsi queste domande, e si domanda se non abbia visto troppe volte film come Strange Days di Kathryn Bigelow o Matrix.
Tuttavia, come ripetuto più volte, il videogioco è fra le altre cose strumento di profonda innovazione tecnologia (oltretutto, uno strumento domestico), e si è dimostrato in grado di portare la nostra capacità di immersione in universi “diversamente esistenti” a livelli straordinari. Forse, allora, porsi certe domande non è semplice esercizio speculativo da nerd appassionato di fantascienza filosofica.
Forse è, semplicemente, un bisogno.
This post was published on 20 Marzo 2020 12:09
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