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Unity of Command 2: il realismo può essere divertente?

Il gameplay di un videogioco ha molti obiettivi, anche molto diversi tra loro. Deve rendere il gioco godibile in modo da non far nascere in noi la voglia di disintallare per sempre il gioco inveendo contro i programmatori, ma spesso vuole anche ricreare degli elementi peculiari del setting. E’ il caso di Unity of Command 2, che ha un obiettivo molto particolare e ambizioso: essere al tempo stesso divertente e ricreare nel modo migliore possibile la Seconda Guerra Mondiale e le sue dinamiche, senza lesinare opzioni su opzioni fra le quali destreggiarsi durante una partita.

Obiettivo necessario o virtuosismo da game designer che ha giocato troppo a Risiko?

L’arte della guerra (virtuale)

In un reportage di Rock Paper Shotgun pubblicato nelle scorse ore il designer del progetto Tomislav Uzelac racconta orgoglioso di come la filosofia del gioco si basi sul ricreare nella maniera migliore possibile alcune dinamiche storiche molto particolari.

Essendo ambientato sul fronte occidentale-a differenza del primo capitolo della serie, incentrato sul ruolo dei sovietici, Unity of Command II necessitava di una serie di meccaniche strategiche che traducessero in gameplay avvenimenti che hanno contraddistinto quel teatro di guerra. Un esempio di ciò è dato dalla raffigurazione della battaglia di Montecassino. In essa, la presenza di catene montuose resero critica la marcia degli alleati delle truppe verso il monastero occupato dai tedeschi, ricreato nel gioco attraverso una serie di malus dati all’armata del giocatore al momento del passaggio in quella parte dello scenario. Un elemento sul quale Uzelac ha voluto prestare attenzione per creare un titolo che fosse storicamente perfetto, ma a suo dire senza sacrificare  il divertimento.

Molte altre sono state le problematiche da affrontare, come la simulazione della gestione di una macchina complessa come un’armata e del suo quartier generale, certo non facile da rendere all’interno di un gioco senza cadere nella trappola di trasformare un videogioco in uno di quei lunghissimi e interminabili wargame da tavolo con un manuale di istruzioni lungo quanto un dizionario di greco.

Un obiettivo lodevole, certo, ma che riporta al centro della scena un discorso evergreen all’interno del game design.

Più reale del reale!

Non so se a coloro di voi che giocato di ruolo è mai capitato di incontrare quello che io chiamo il “master Barbero” (dal nome del noto storico appassionato di squartamenti e tragedie), creatura mitologica che sogna costantemente di scrivere una sua versione di Dungeons & Dragons che sia la più realistica possibile, anche al costo di sacrificare ogni tentativo di rendere accessibile e scorrevole il gioco.

Ecco, quando leggo di progetti come Unity of Command 2 mi vien da pensare a loro.

Oh, sia chiaro: credo che realizzare un gioco al tempo stesso divertente e in grado di farti vivere le atmosfere di un’epoca storica sia un’impresa fantastica e appagante e da appassionato di Storia stimo molto coloro che hanno certi obiettivi. Il problema nasce dal fatto che alcuni esempi di questo tipo non hanno suscitato reazioni davvero discordanti.

L’esempio più memorabile è Kingdom Come: Deliverance, che al di là dei difetti tecnici, ha spaccato la critica e il pubblico sul peso di alcuni elementi storici nella resa del combattimento o del tiro con l’arco, risultati tanto pesanti da spingere molti a lasciar perdere. Altro esempio, pur non essendo sinonimo di “difficoltà”, è quello di Red Dead Redemption II, nel quale la volontà di ricreare le condizioni di viaggio e di esplorazione di un pistolero di fine ‘800 hanno sconcertato alcuni giocatori.

La domanda che queste scelte di game design pongono è semplice, ed è sempre la stessa di caso in caso: sono questo genere di programmatori a essere troppo esigenti o “fissati” o sono i giocatori a non essere più “adatti” a certi tipi di difficoltà?

Meglio divertirsi o simulare?

Quello della difficoltà media dei giochi è un tema molto dibattuto negli ultimi anni, soprattutto a causa di quella che è stata definita una costante ed eccessiva semplificazione del gameplay per permettere una maggiore accessibilità ai titoli.

Il risultato è quindi una polarizzazione ai limiti dell’assurdo: da una parte un’industria mainstream che sembra voler coccolare a tutti i costi il giocatore e spronarlo a vedere giochi più complessi come una specie di troll raro. Un atteggiamento che ha reso parte dell’utenza molto critica verso questo fenomeno, indicato come “deleterio”.

D’altro canto, vari sono i giocatori che ricorrono spesso al termine “frustrazione” per giudicare sezioni di gioco che richiedono un impegno costante, una cura, una “dedizione” al gioco, anche e soprattutto nei casi in cui queste sezioni sono funzionali agli obiettivi “comunicativi” del titolo. 

Riusciranno questi due punti di vista trovare un equilibrio o dovremo assistere a una lunga guerra civile?

>>Leggi anche: Kingdom Come Deliverance verrà usato per insegnare storia medievale <<

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This post was published on 2 Gennaio 2020 17:49

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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