Se fossimo i giudici dei Guinness World Record, probabilmente oggi avremmo un nuovo nome (nonché una nuova voce) da inserire in uno degli almanacchi più celebri al mondo. Stando a quanto riportato in un articolo del South China Morning Post, un uomo avrebbe speso 1.4 milioni di dollari in microtransazioni, giocando a Justice Online, un MMORPG molto celebre in terra cinese, riuscendo così a sbloccare potenziamenti ed elementi cosmetici unici nel loro genere.
Tuttavia, nonostante l’impegno e le finanze profusi, sembra proprio che i suoi sogni di gloria siano andati in fumo: un amico del gamer in questione, infatti, avrebbe venduto il personaggio, insieme a tutti i suoi costosissimi power up, ad una cifra di gran lunga inferiore a quella spesa: appena $552.
Che cosa è scaturito da questa vicenda a dir poco surreale? Il gamer in questione avrebbe intentato causa sia contro NetEase, software house del gioco, nonché contro il suo incauto amico… o forse sarebbe meglio definirlo ex amico.
Nonostante quanto ora descritto rappresenti forse il caso più eclatante relativamente ai soldi spesi per le microtransazioni, non si tratta certo di un caso isolato. Nelle righe che seguono, vi elencheremo altre storie di giocatori che hanno speso una fortuna in loot box, oggetti cosmetici, power up unici et similia, nonché le posizioni di alcune note software house in merito a questo tema a dir poco scottante.
Microtransazioni: gioie, dolori e storie di ordinaria follia
Come ben sappiamo, parlare di microtransazioni nei videogame significa parlare di un argomento spinoso, che ha causato non poche polemiche negli ultimi anni, gettando ombre e discreto su tutti quei publisher che intendessero farvi ricorso in maniera improvvida. Se oramai è scontato ammettere che la quasi totalità dei titoli online sopravviva anche grazie a questi escamotage, è vero anche che il caso Battlefront II ha attirato un’attenzione mediatica senza precedenti, ponendo un argine al ricorso indiscriminato a microtransazioni e loot box.
È innegabile che anche storia come quella riportata in apertura abbiano contribuito ad alimentare timori, più o meno fondati, sulle derive degli acquisti in game.
La causa legale, a cui accennavamo in precedenza, ha però avuto un “lieto fine”: il giudice ha riconosciuto l’errore di valutazione del bene virtuale (l’avatar), facendo riottenere al giocatore il suo costosissimo personaggio, ma costringendolo anche a pagare un risarcimento di circa $12.000 alla persona che l’aveva precedentemente acquistato a basso costo.
Nonostante quanto ora detto, non tutte le storie legate alle microtransazioni hanno potuto vantare una simile conclusione.
Spade virtuali, skin uniche e tanti, tantissimi debiti
Come già anticipato, la storia che vi abbiamo narrato non è l’unica nel suo genere. Le “spese pazze”, nel caso delle microtransazioni, non mancano di certo. Uno dei casi più eclatanti ha riguardato Age of Wulin, un videogame online basato sulle arti marziali che, in occasione del suo lancio, avvenuto oramai diversi anni fa, mise all’asta alcuni bundle con degli oggetti rari, che sarebbero poi potuti essere utilizzati all’interno del gioco. Ebbene, un giocatore riuscì ad accaparrarsi una spada virtuale (di pregevolissima fattura) alla modica cifra di 16.000 dollari.
Se nel Regno Unito, un ragazzo aveva speso oltre 50.000 sterline giocando a RuneScape, facendo evaporare le finanze sue e della sua famiglia, uno dei casi più eclatanti riguarda senza dubbio Legend of Mir 3.
In questo caso, un giocatore accoltellò un suo amico fino ad ucciderlo. Causa dell’omicidio? L’aver venduto un oggetto raro che gli era stato prestato. Il caso in questione mise in luce anche un vulnus giuridico di non poco conto: gli oggetti posseduti in game non rientravano infatti nel concetto di proprietà privata e, per questa ragione, chiunque se ne appropriasse, li vendesse e ne ricavasse profitto, non era giuridicamente perseguibile.
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