La vita di un videogiocatore di lungo corso può essere molto dura. Considerato sempre come un mezzo d’intrattenimento “giovane”, il videogioco riserva ai suoi fan dei gran brutti colpi quando, conti alla mano, si rendono conto che alcuni suoi esponenti storici hanno superato la ventina abbondante. Oggi, complice un’intervista uscita in queste ore a uno dei suoi programmatori, vogliamo farvi del male e raccontarvi la storia di Donkey Kong 64, uscito per Nintendo 64 in Nord America il 22 novembre 1999 e in Europa il 3 dicembre dello stesso anno, e…
E sì, potete odiarci per il volervi ricordare che siete vecchi, ma vi assicuriamo qualche chicca interessante da scoprire attraverso questa story un bel po’ vintage.
(Il video del nostro Alessandro Sepe di Neapolitan Fresh Memes, la citazione era d’obbligo)
Scimmioni in 3d
Perché vale la pena ricordare questo titolo, all’epoca non proprio fortunato in termini commerciali? Beh, chi ha una discreta conoscenza della storia del videogioco in quel periodo potrà intuirlo facilmente. DK64 fu infatti il primo titolo della serie (concepita nel 1981 come platform da Shigeru Miyamoto), a essere sviluppato in 3d e quindi a sperimentare un altro gameplay. Come i videogiocatori di lungo corso sapranno, tuttavia, all’epoca Donkey Kong aveva lasciato il Sol Levante per traslocare nel Regno Unito, dove aveva trovato una nuova casa di sviluppo, la storica e (per il suo valore artistico e tecnico) Rare.
Non conoscete la Rare? Impossibile: è stata una delle software house più interessanti e vitali dello scenagio videoludico occidentale, in grado di sviluppare alcuni mostri sacri come 007-Goldeneye o Banjo Kazooie.
Sotto la direzione di Rare, la saga Donkey Kong aveva vissuto una entusiasmante “evoluzione” ed era sbarcata su Super Nintendo a partire dal 1994, con le serie Country e Land, ciascuna comprendente ben tre titoli usciti fra il ’94 e il 1997 (complimenti per la produttività Rare, non male davvero!). Sei titoli entrati nei cuori dei giocatori, sei titoli simbolo degli anni ’90 e in grado di incarnare alla perfezione la filosofia del platform a scorrimento assieme ad altri giochi dell’epoca (in testa Super Mario, ovviamente).
Nel ’99, arrivata alle soglie di una nuova generazione videoludica, era tempo di un salto di qualità e di un bel rischio. Un rischio che Rare avrebbe pagato in sudore…
Rare rischiatutto
Per ricostruire questo passaggio è buona cosa rifarci a un frammento d’intervista al lead artist di Donkey Kong 3d, Mark Stevenson. Quello che emerge dalla trascrizione è il quadro di grande incertezza nel quale DK3d venne sviluppato. Prima di arrivare nelle nostre case come esperimento in tre dimensioni, infatti, Rare aveva pensato a una sua incarnazione ancora in 2d (anzi, per l’esattezza in 2.5d) e sembra che solo un ripensamento in corso d’opera abbia portato gli sviluppatori ad abbracciare la nuova impostazione.
Un processo laborioso e molto problematico, che portò la Rare ad azzerare il progetto già iniziato e a iniziare a un processo produttivo ex novo che si sarebbe prolungato per tre anni. Come se non bastasse, Rare decise di sostituire il team responsabile di trionfi come i Country con un altro dopo diciotto mesi di sviluppo, di fatto rischiando il collo in una fase di passaggio da un’epoca videoludica all’altra.
Il risultato fu un titolo che adattava una formula di gioco ormai collaudata a nuove meccaniche e nuovi pubblici, scuotendo una fan base consolidata e soprattutto un’idea di gioco che aveva segnato il decennio che si stava andando a chiudere.
Il peso dell’innovazione
Il risultato? Non molto apprezzato dalla critica.
A fronte di un vero e proprio trionfo commerciale arrivato durante le vacanze di Natale fra il ’99 e il 2000, da un punto di vista analitico Donkey Kong 3D appariva come un titolo che si appoggiava troppo a meccaniche già presentate dai competitor nelle annate precedenti, riproposte senza molta ispirazione e con una grafica che sentiva il peso del lungo periodo di sviluppo.
Se ci pensiamo, risultati purtroppo naturali per un processo creativo così tortuoso, che si dovette confrontare con innovazioni tecniche e soprattutto combattere una concorrenza già avvantaggiata e rodata. E’ quel che succede nei momenti di passaggio, di evoluzione del linguaggio del medium e delle sue meccaniche, in cui un attore alza la posta in gioco, un altro tenta di rispondere, un altro ancora si aggrega tentando di sfruttare le novità già messe in campo per un buon piazzamento, magari senza troppa fortuna.
D’altro canto, si tratta di una storia “d’altri tempi”, “pionieristica”, dove la competizione era basata sulle grandi innovazioni, sulla voglia di sperimentare, sulla mancanza di una reale standardizzazione.
Quella che forse oggi uccide un po’ la creatività e la voglia di rischiare.
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