Evitare di pensare a Mario come un’icona del videogioco mondiale è quasi impossibile. Per quanti possano essere le saghe di successo, i personaggi iconici e le grandi storie raccontate dalle compagnie di tutto il mondo, l’idraulico italo-americano di Miyamoto e tutta la sua banda sono diventati un simbolo di divertimento e spensieratezza. Se pensiamo a questo, le ultime dichiarazioni del suo autore non dovrebbero stupirci. Secondo Miyamoto-san, l’ambizione per Nintendo dovrebbe essere una sola: utilizzare i suoi brand più famosi per diventare influente e onnipresente quanto la Walt Disney Company.
Follia o obiettivo raggiungibile?
Secondo quanto riportato da DualShockers, in un’intervista ad Nikkei Asian Review Miyamoto ha parlato in maniera approfondita delle sue aspirazioni future, degli obiettivi che Nintendo dovrebbe porsi e di come immagina il suo Mario nei prossimi decenni. Per farlo è però partito da lontano, dalle origini del brand alla fine degli anni ’70. All’interno dell’articolo si racconta come l’approccio del game designer alle sue creazioni fosse molto vicino a quello di un giovane mangaka che tenta di proporre dei personaggi interessanti al suo pubblico. Miyamoto racconta di come Mario, come anche il Link di Zelda, non fossero personaggi semplicemente “pensati per il videogioco”, ma prototipi di icone pop aventi l’obiettivo dei entrare nei cuori di milioni di bambini.
Un obiettivo che in parte sembra essere stato raggiunto. Qualcuno ha forse dubbi sul fatto che gli incassi maturati da Nintendo nell’arco di più di quarant’anni non possano rivaleggiare con quelli della Disney? Beh, secondo Miyamoto stesso la strada per il traguardo è ancora molto lunga, e per un motivo in particolare: i genitori dei bambini, ovvero dei principali destinatari dei suoi giochi.
Ogni buon videogiocatore od appassionato della cultura popolare del secondo dopoguerra conosce bene il miracolo di cui Nintendo è stata protagonista. Dagli anni ’70/’80 in poi, quest’impresa familiare di prodotti per la casa ha lavorato sodo per divenire un punto di riferimento dell’intrattenimento digitale e, ovviamente, del videogioco. Il frutto di questo vittorioso processo di conquista ha però avuto anche un altro risultato, che nasconde delle lame a doppio taglio.
Lo sbarco negli U.S.A. e in generale in occidente ha generato un mercato e un’industria plurimiliardaria. Il fatto che la “testa di ponte” della casa giapponese sia stato un medium “sconosciuto” e “giovane” come il videogioco ha però inevitabilmente creato diffidenza da parte della popolazione, che solo recentemente ha iniziato ad apprezzare diffusamente il medium. Miyamoto racconta infatti di come i genitori dei bambini siano ancora oggi molto scettici su questo tipo di intrattenimento e come non vedano di buon occhio il fatto che il personaggio di un videogioco possa diventare il preferito del loro bambino. Al contempo Miyamoto rileva, con disappunto, come ciò non accada con i protagonisti dei film Disney.
Mai come in una dichiarazione come questa emerge la lontananza fra due ambienti culturali. Anche se molto meno, oggi come vent’anni fa il planisfero dell’intrattenimento generalista sembra spaccato in due: a ovest le famiglie apprezzano soprattutto cinema e cartoni animati, a est il fumetto e il videogioco hanno fatto maggior breccia. Il problema è antico. Da una parte hai una cultura prettamente scritta (quella occidentale) che ha relegato la sfera visiva nella “serie B”, dall’altra una che da migliaia di anni ha incentrato le sue forme di storytelling sull’immagine. Quando due mondi del genere si incontrano sotto l’egida di una multinazionale, il risultato non può che essere problematico.
Le parole di Miyamoto non fanno riflettere solo sul futuro della sua azienda, ma sull’intrattenimento in toto. In un’epoca guidata dalla globalizzazione, le multinazionali hanno prima giocato la carta della standardizzazione dei modelli culturali e poi, negli ultimi anni, quella della declinazione dei loro prodotti alle sfere locali (un esempio: i manga Marvel e DC venduti in Giappone accanto ai comics).
Si è trattato di un processo che ha fatto vari danni, annichilendo o recintando alcune tradizioni particolari in nome delle necessità libero mercato, pur creando l’immagine di un mondo “unito”. Il risultato è che oggi persino un colosso dell’intrattenimento “postmoderno” come Nintendo sembra avere problemi di espansione fuori dalla sua comfort zone. Se la cultura egemone vede il videogioco ancora come qualcosa di “inferiore” e il tuo obiettivo per inclinazione culturale è invece venderlo come icona diffusa hai due strade: o trasformi Mario in una serie a cartoni animati e apri una piattaforma streaming tipo Disney+ per farti un pubblico oltreoceano, oppure rimani nel mercato asiatico e lavori lentamente per far sì che lo status del videogioco si innalzi sempre più negli U.S.A. e in Europa. Va da sé che ogni buon appassionato vorrebbe che si continuasse con la seconda strada; una dinamica del genere potrebbe infatti avere risultati ottimi non solo per Nintendo, ma per l’intera industria e per il ruolo culturale del medium. Ma, di sicuro, non è un obiettivo fattibile dall’oggi al domani.
Una cosa è certa: sono dinamiche come queste a far comprendere come la strada dell’affermazione del videogioco sia ancora lunga, lunghissima, forse in salita.
This post was published on 25 Novembre 2019 18:08
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