Mai come quest’anno l’informazione videoludica ha avuto modo di parlare del complesso e controverso rapporto fra la Repubblica Popolare Cinese e l’utilizzo del videogioco da parte dei suoi cittadini. Un rapporto squisitamente problematico e politico, caratterizzato da casi di censura più o meno velata da parte delle autorità. Per esempio, tutti ricordiamo la disposizione cinese del ritiro da Steam di Devotion, l’indie horror taiwanese che ammiccava critiche al regime autoritario di Pechino, così come alla politicizzazione di alcuni eventi di esports.
Bene, oggi abbiamo un esempio di questi rapporti contradditori: il governo cinese ha infatti imposto delle rigide norme per regolamentare l’utilizzo dei videogiochi per motivi “di ordine pubblico”.
Isteria collettiva o qualcosa di più?
Secondo le ultime norme, il governo ha di fatto limitato i tempi di accesso dei cittadini ai videogiochi: i giocatori minori di 18 anni non potranno più giocare dalle 20:00 alle 08:00 dei giorni feriali, non potranno farlo per più di novanta ore a settimana, non potranno utilizzare nickname che camuffino la loro vera identità e, infine, avranno un rigido tetto di spesa per le microtransazioni.
Come in molti altri ambiti, quindi, lo stato cinese sta di fatto entrando pesantemente nella vita dei suoi cittadini tentando di imporre delle “regole” alle loro pratiche sociali. Se pensiamo alla storia sociale del Paese, fatta di una forte proiezione al controllo delle masse, un fenomeno del genere non dovrebbe certo sorprendere. A colpire un po’ di più è invece il motivo: l’obiettivo del governo cinese sarebbe infatti quello di combattere l’altissimo grado di dipendenza dal videogioco, una questione che nel corso dell’anno è entrata prepotentemente all’interno dei discorsi pubblici (non solo in Cina), suffragata anche da alcune dichiarazioni di enti sovranazionali.
Prima di ragionare su quella che a tutti gli effetti sembra una chiara ingerenza di uno stato sui suoi cittadini (di stampo quasi orwelliano), vale la pena toglierci un dente e ragionare sulla causa di questo stato di cose: è infatti del maggio 2019 la proposta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di far entrare la dipendenza dai videogiochi all’interno delle dipendenze riconosciute e l’indicazione di questa patologia come gaming disorder (ne abbiamo parlato qui).
L’OMS stesso ha tenuto a chiarire come l’inclusione del disturbo fra le malattie non è da intendersi come una crociata moralista contro “il videogioco”, ma piuttosto come un esempio di patologia da isolare, analizzare e combattere in maniera seria e precisa. Diciamocelo: visti i tempi che corrono, in cui ancora ci vuol molto poco per scatenare cacce alle streghe (come nel caso delle restrizioni alla vendita di videogiochi nei Walmart dopo i fatti di sangue della scorsa estate), dimostrazioni di cautela di questo tipo non possono che far piacere.
Per concludere il discorso (sempre che a una conclusione si possa giungere) sulla vicenda cinese, è tuttavia interessante notare come questo non sia il primo provvedimento di contrasto alla “dipendenza da videogioco” adottata in Cina, fatto che lascia vedere nel la legge appena approvata ben più che una reazione agli ultimi provvedimenti OMS.
Facendo qualche ricerca sulla storia sociale del videogioco in Cina, certo superficiale ma abbastanza esaustiva, si nota con sorpresa come la Repubblica Popolare sia stato il primo stato a dotarsi di una legislazione includente la dipendenza da VG fra le patologie riconosciute (2008) e che la legge adottata nei giorni scorsi non sia che l’ultima di una lunga serie.
La domanda sorge dunque spontanea: quella cinese è una situazione particolare, più preoccupante di quella di altri Paesi?
I vari provvedimenti legislativi adottati nel corso degli ultimi dieci anni rendono evidente come la Cina abbia affrontato l’argomento molto prima del resto del mondo, forse spinti da episodi molto preoccupanti. D’altra parte, il paese è stato anche il primo a chiedere ai produttori di combattere attivamente il fenomeno obbligandoli a sviluppare versioni “più sicure” dei loro giochi.
La guerra, tuttavia, sembra ancora lontana dall’essere vinta. Dieci anni e due leggi (più un altro provvedimento secondario) non sembrano aver risolto la situazione e rimane, infine, il problema di fondo: può la limitazione imposta risolvere davvero una situazione che ha radici molto più profonde, connaturate a una società che appare sempre troppo frenetica e competitiva? E ciò può davvero giustificare delle palesi limitazioni della sfera privata?
Abbiamo qualche dubbio in merito, sinceramente.
This post was published on 9 Novembre 2019 11:30
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