All’interno dello sconfinato mercato del videogioco, caraterizzato da una miriade di diverse fasce di prodotti, Ubisoft è quella che potremmo definire un’attrice principale, nonché una costante nei calendari delle uscite annuali: all’incirca dal secondo Assassin’s Creed (2009), infatti, il publisher si è sempre distinto per una politica editoriale aggressiva arrivando quasi a monopolizzare il settore con uscite scandite annualmente caratterizzate da processi lavorativi talvolta simili a una gigantesca “catena di montaggio”, che più di una volta hanno finito per scatenare critiche sulla qualità dei giochi.
Ora, a quasi dieci anni di distanza dall’inizio di questa “sovraesposizione”, il colosso dà vistosi segni di cedimento: in seguito alle critiche al suo ultimo gioco, Ghost Recon Breakpoint (qui la nostra recensione), Ubisoft decide di rimandare tutti i suoi titoli più importanti a data da destinarsi per svilupparli meglio. Sano segnale di ritrovato senno oppure goffa corsa ai ripari?
Come riportato anche da noi qualche giorno fa, Ubisoft si è unita a una piccola ma significativa schiera di publishers che hanno deciso di rimandare a data da destinarsi alcuni promettenti titoli previsti per il prossimo anno, e cioè Watch Dogs Legion, Rainbow Six Quarantine e Gods & Monsters (fonte: VG247). Di per sé, viste le mosse di altre realtà sul mercato come Sony con The last of us 2, in un altro contesto la scelta sarebbe categorizzabile come semplice esempio di rinvio strategico; nelle ultime ore, tuttavia, essa ha acquistato tutt’altra dimensione.
Tuttavia è a questo punto, in seguito ad alcune dichiarazioni rilasciate da alcune figure nell’organico di Ubisoft a Jason Schreier, redattore di Kotaku, che la trama sembra complicarsi a tal punto da toccare alcuni degli aspetti più complicati del modello produttivo della multinazionale: stando a queste dichiarazioni, l’azienda sarebbe rimasta spiazzata dalle reazioni discordanti della fanbase all’ultimo nato della casa, ovvero Ghost Recon Breakpoint, accolto dai giocatori con critiche a quelli che sono stati giudicati come pesanti stravolgimenti del gameplay, e sulla base di ciò avrebbe deciso di rielaborare il piano uscite in modo da rifinire meglio i prossimi progetti in modo da non incappare in nuove critiche, nonché di voler creare nuovi modelli di videogioco che non incappino in un’eccessiva “omologazione” dell’esperienza ludica (leggi: basta ai giochi fatti “con lo stampino”).
Al di là della qualità altalenante di parte della sua produzione e degli eccessi di zelo nel voler essere costantemente sul mercato di anno in anno, se c’è un’indubbia qualità delle attività di Ubisoft questa è da ricercare nel rapporto fra essa e la sua base.
Tutti i grandi brand della multinazionale, inclusi titoli “storici” come Splinter Cell, sono prodotti popolari che in più di dieci anni sono riusciti a mettere assieme una ricerca di formule di gameplay peculiari e la costruzione di lore indimenticabili, capaci di radunare attorno a sé delle community agguerrite la cui maggioranza, come visto tante volte, è stata in grado di seguire Ubisoft in capo al mondo anche di fronte a delusioni cocenti. Paradossalmente, per quanto spesso tacciata di “freddezza” e di creare giochi per “la massa” l’azienda ha fatto del suo core una serie di marchi che possono contare di un sostegno ampissimo.
E’ questo a dover far capire la “profondità” della scelta di Ubisoft, che di fronte a lamentele diffuse e a una certa insoddisfazione sceglie la via della sicurezza optando per una rifinitura ulteriore a titoli che fino a pochi giorni fa erano al centro di piani completamente diversi e che oggi invece potrebbero essere protagonisti di manovre completamente diverse: secondo Game Industry, infatti, l’amministratore delegato di Ubisoft Yves Guillemot ha infatti dichiarato che Watch Dogs, Rainbow Six e Gods & Monsters (“erede spirituale” di Odissey, uno dei titoli della casa più riusciti degli ultimi anni) usciranno con tutta probabilità al centro della fase cross gen fra PlayStation 4 e 5, il che vuol dire che avremo versioni dei giochi per entrambe le console, che usciranno contemporaneamente o nel giro di poche settimane.
A onor del vero, non è la prima volta che Ubisoft dà segni di cedimento di fronte a una reazione “ostile” della fanbase: già l’ultima fase di Assassin’s Creed, inaugurata con un “anno di riflessione” fra uno dei suoi titoli meno riusciti-almeno dal punto di vista delle vendite- ovvero Syndicate (2015), e uno dei più amati, Origins (2017), aveva mostrato plasticamente come la direzione della multinazionale fosse sensibile agli umori della base.
Se ci pensiamo, una simile posizione è virtuosa, poiché almeno sulla carta dimostrerebbe una certa sensibilità nella gestione di un brand ormai centrale nella strategia dell’azienda; tuttavia, se contestualizzata all’interno della sua storia, è anche una posizione che suona come un campanello d’allarme, nonché anche vagamente ipocrita. Il modello Ubisoft, fino praticamente a “ieri”, era (come ricordavamo prima) quello delle uscite scandite da un ritmo annuale, quello che spremeva i brand fino all’osso costruendovi sopra imperi dentro imperi senza farsi troppi complimenti. A un certo punto, semplicemente, la multinazionale si è resa conto di stare andando a sbattere, e ha cambiato modello, sostituendone uno di commercialità spinta con un altro più “di ascolto”.
E’ qui tuttavia che emerge la contraddizione: qual è il confine fra l’ascolto della base e una sorta di “sudditanza” a essa, tale da prevalere sui piani di una multinazionale da miliardi di dollari? Attenzione alla qualità solo quando “paga”?
This post was published on 1 Novembre 2019 17:51
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