Come fulmini a ciel sereno in questo ottobre sfizioso e ricco di novità videoludiche, al termine di un’annata videoludica che ha portato nei nostri PC e console alcuni titoli interessanti ma, soprattutto, fatto pregustare un 2020 ancora più ricco di soddisfazioni, nel giro di ventiquattro ore alcuni dei titoli più attesi della prossima stagione, incluso The Last Of Us Part 2, sono stati posticipati di qualche mese per varie ragioni che per lo più ricalcano quelle legate a rinvii che si sono verificati negli anni scorsi, facendo tornare la sempreverde domanda “meglio un buon titolo oggi o un eccellente titolo domani?”.
Tentiamo allora di calmare il nostro disappunto, ponendocela di nuovo e tentando di ragionare su uno degli inconvenienti che più caratterizzano l’industria del videogioco.
Giochi (anche molto) ritardatari…
Il ritardo di The last of us 2 (qui la scheda completa del gioco), sia pur di soli tre mesi (da febbraio a maggio 2020) è senza dubbio il più sorprendente fra quelli che incontreremo durante il nostro breve viaggio: messo in lavorazione nel 2014, annunciato nel 2016 e confermato per il 21 febbraio dell’anno venturo durante lo State of Play dello scorso settembre, si tratta di uno dei titoli simbolo della nuova generazione, dovendo prendere in carico l’eredità di uno dei videogiochi più amati della PS3 e, attraverso la remastered, PS4. Un titolo che tendenzialmente potrebbe rivelarsi un investimento a ritorno sicuro per Sony, fatto che, tuttavia, non ha impedito al team di sviluppo di frenarne la corsa verso gli scaffali in vista quella che (stando alle parole di Neill Druckmann, capo del progetto) sembrerebbe voler essere una sorta di check finale del progetto.
Il kolossal di casa Naughty non è però l’unico ritardatario annunciato di questi giorni, anzi. Forse spaventati dai tempi serrati delle sue uscite qualche anno fa (qualcuno ha detto Assassin’s Creed?) nella giornata di ieri Ubisoft ha lanciato gli annunci dei ritardi di ben tre dei suoi titoli attesi per l’anno prossimo: Gods & monsters, “erede spirituale” di Assassin’s Creed: Odissey, con quale condivide l’ambientazione greco-mitologica (25 febbraio dell’anno venturo), ma anche Watch Dogs: Legion, che vedrà la pubblicazione solo a marzo 2020 e, infine, Rainbow Six: Quarantine, spostato nella seconda metà dell’anno. Se poi andiamo ancora indietro con il calendario delle news ci rendiamo conto di quanto di quanti illustri esponenti del videogioco abbiano visto dei ritardi nel corso dell’anno, a cominciare da Doom Eternal (marzo 2020), e la lista, anche andando a vedere i giochi in effetti usciti in seguito, è molto lunga.
Non che la cosa ci sorprenda, certo: ormai quella dei clamorosi rimandi è una costante del nostro settore, e forse anche uno degli aspetti più controversi e, per certi versi, frustranti sia per sviluppatori che utenti finali.
“Cosa cerchi?” “Qualità!”
Potremmo a questo punto tentare di stilare una listucola di motivi alla base di questi ritardi, ma la verità è che, anche senza confrontare le varie dichiarazioni, ne bastano un paio per capire la principale motivazione addotta dai vari publisher, che più o meno suonano così: “Vogliamo fare le cose in modo migliore di come sono ora”.
Una frase riassuntiva, certo, ma che a parere nostro fotografa perfettamente una situazione di costante rincorsa e competizione fra le major che punta tutto sulla costruzione di offerte sempre più rifiniti, ambiziosi e complessi, vere e proprie parole chiave per comprendere il nostro discorso: come definire infatti Watch Dogs: Legion, un titolo che promette al giocatore di poter interagire con l’intera popolazione della sua Londra virtuale, se non dannatamente ambizioso?
Da questo punto di vista, se si parla di titoli che mettono in campo premesse sulla carta rivoluzionarie che potrebbero rappresentare per loro dei potenti cavalli di battaglia e hanno bisogno di tempo per essere rodate, perfezionate e messe in campo, il ritardo diventa un fattore potenzialmente inevitabile e quasi virtuoso e quasi una prova della serietà delle aziende che vogliono creare un prodotto sempre migliore, premessa necessaria per un successo industriale in un campo così complesso.
Che succede però se il “perfezionismo” diventa una “malattia”?
“È invecchiato in fretta!”
Certo tutti gli analisti dell’industria del gaming sanno benissimo dove la deriva della competizione spinta possa portare, a cominciare dal moltiplicarsi dei terrificanti crunch (inevitabili: più roba aggiungi, più si lavora, più qualcosa può andare storta) che caratterizzano fin troppe aziende.
C’è però anche un altro elemento che spesso dimentichiamo.
La storia del videogioco è costellata di titoli che, pur essendo nati sotto la stella dell’innovazione (come l’introduzione di meccaniche in precedenza mai viste), una volta rimasti incagliati nei vortici dei continui rimandi hanno visto la loro carica disperdersi o, peggio, venir superata da prodotti simili e ma già avanti per certi aspetti (ovviamente quando si parla di ritardi di anni, e non mesi).
La domanda da farsi non dovrebbere essere se a volte posticipare un gioco in nome del perfezionismo sia “accettabile” da parte dei giocatori, ma un’altra, da porre agli sviluppatori, e cioè quando sia davvero il momento di prendere coraggio, lanciare sul mercato il proprio ragazzo e credere in lui fino in fondo, per non “perdere l’attimo”, competitor o meno.
Esiste una risposta? Assolutamente no!
>>Leggi anche: The Last Of Us 2 ed il suo rapporto con la moralità<<