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Il videogioco non teme le malattie mentali

Grazie alla sua immersività e capacità di sviluppare empatia verso i suoi utenti, il videogioco è diventato uno dei mass media in grado di farci vivere le vite di altre persone, spesso eroi leggendari con pochi punti deboli e molte qualità straordinarie: che siano supereroi, figure mitologiche o detective dalle qualità superbe, i nostri alter-ego sono sempre stati la proiezione della voglia di vivere storie straordinarie, e di farlo nei panni di persone con ben pochi difetti. Da qualche anno, però, le cose sono (per fortuna) cambiate, e molti team di sviluppo hanno deciso di giocare duro utilizzando le splendide qualità dell’arte videoludica per raccontare anche i lati più profondi e oscuri della psiche umana, con le sue debolezze, i suoi lati più imperfetti, le sue condizioni più problematiche, come le malattie mentali. Arrivando, in questo modo, a un’incredibile maturità creativa e sensibilità.

Proprio ieri è la Giornata Mondiale della Salute Mentale: quale miglior momento per fare il punto della situazione su come i videogiochi hanno affrontato queste tematiche?

Quando il gioco sfida la malattia

Istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Giornata Mondiale si propone di affrontare questo tema delicato per sensibilizzare la popolazione circa una serie di patologie che da qualche decennio caratterizzano purtroppo la società industrializzata. L’obiettivo delle istituzione è infatti quello di affrontare malattie ormai diventate endemiche in un contesto sociale sempre più basato su troppa interconnessione, iperattività estrema e forte competività, quali ansia, depressione o schizofrenia.

La novità di quest’anno è che anche il mondo del videogioco è voluto scendere in campo per parlare della questione attraverso un meeting di sviluppatori e addetti ai lavori, l’International games summit on mental health awarness (o TIGS). L’evento è stato strutturato in una serie di panel tematici, che hanno avuto come relatori CEO di team di sviluppo che hanno trattato il tema all’interno delle loro opere; fra loro, solo per fare un esempio esplicativo, Ken Hall, coordinatore direttore creativo di 2Dogs, compagnia al lavoro su Destiny’s Sword, un MMO strategico che narra le conseguenze dell’esperienza bellica sulla psicologia dei militari, affrontando per esempio il tema delle dipendenze sviluppate per effetto dello stress post-traumatico.

Ciò che è emerso dall’incontro (a cui Game Industry ha dedicato un interessante resoconto)  è stata la volontà di analizzare la questione a trecentosessanta gradi, dando un contributo critico sui temi proposti e offrendo spunti di riflessione. Un confronto inserito all’interno di un dibattito più ampio, sviluppatosi negli ultimi anni grazie ad alcuni esempi di giochi particolarmente interessanti.

Nel nostro discorso non si può certo non citare Hellblade.

Affrontando i propri demoni

In realtà, infatti, il summit non ha fatto altro che “istituzionalizzare” una sorta di voga creativa abbastanza diffusa negli ultimi anni: sia in ambiente indie che non, vari sono i videogiochi che hanno affrontato il tema del disagio mentale includendo nel loro gameplay degli elementi in grado di simularlo, o che hanno tentato di riflettere su questo tema grazie all’arma della metafora.

Il più famoso di essi è senza dubbio Hellblade: Senua’s Sacrifice, l’osannato action di Ninja Theory nel quale il giocatore deve guidare la protagonista-una guerriera celta- in un vero e proprio viaggio all’inferno che, tuttavia, si rivela presto essere il parto della sua schizofrenia latente. Sviluppato e pubblicato nel 2017, Hellblade è da una parte una commovente rappresentazione della malattia mentale, in grado di metterci nei panni di una persona afflitta da questa terribile patologia, e dall’altra un’opera in grado di fotografare (pur se indirettamente) le sue conseguenze sociali che una condizione del genere poteva portare in un contesto sociale come quello delle tribù pitte altomedioevali.

E’ tuttavia bellissimo vedere come Hellblade sia stato solo l’esempio più illustre di vera e propria voga: in campo indie, per esempio, il coraggioso Celeste non ha avuto timore di usare un genere come il platform come strumento per metaforizzare la sfida contro la depressione, mentre il titolo bellico Spec ops The Line ha in un certo senso anticipato Destiny’s Sword raccontando con grande forza narrativa l’inferno di un militare conscio dell’orrore delle sue azioni, portando il giocatore a ragionare sugli effetti della guerra e della violenza.

E la lista, siamo sicuri, è ancora lunghissima.

Può un platform parlare di problemi enormi? Celeste ha dimostrato di sì.

Il rischio di banalizzazione.

Stando ai resoconti, ciò che è emerso dal meeting di ieri è stata una certa volontà di cautela nel trattare un argomento così delicato.

A fronte della presa di coscienza che qualcosa si sta muovendo nella giusta direzione, infatti, nel corso del TIGS si è posta l’attenzione sul fatto che l’aumento di progetti come Hellblade, Celeste o Spec Ops The Line possa, anche se in buona fede, portare a una possibile eccessiva sovraesposizione dell’argomento e una sua possibile “banalizzazione” per obiettivi drammaturgici o commerciali. D’altro canto, è emerso il fatto che la presenza di questi temi potrebbe scoraggiare e dissuadere il pubblico dall’acquistare certi giochi, mettendo il luce il carattere non certo del tutto commercializzabile di queste opere.

A parere di chi scrive, è ovvio che l’argomento debba continuare a essere trattato con delicatezza, all’interno di nicchie chiuse, ma è anche vero che siamo di fronte a un’opportunità storica: quando mai abbiamo avuto, nella storia delle arti, la possibilità di una rappresentazione così efficace della malattia?

Sarebbe davvero uno spreco non utilizzarla per sensibilizzare, nel modo più diffuso e corretto possibile.

>>Leggi anche: Hong Kong: la rivolta secondo Riot e la bufera in casa Blizzard – i fatti in breve<<

This post was published on 11 Ottobre 2019 15:47

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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