Il Giappone, fra le culle dell’industria dell’intrattenimento mondiale, è notoriamente un paese dalle straordinarie e palesi contraddizioni: ad esempio (evitando di scendere nel minatissimo campo della politica), il Giappone è una delle nazioni che più ha contribuito alla diffusione delle console, portando alla sconfitta delle sale giochi nel mondo in favore del nuovo sistema digitale casalingo.
Nonostante questo è anche uno dei pochissimi paesi in cui la sala giochi è rimasto un ecosistema vivissimo e che mantiene una centralità – anche sociale – indiscussa. Qualcosa però potrebbe stare per cambiare: il governo nipponico ha infatti aumentato la storica tariffa per l’utilizzo dei giochi, e questo rischia di annientare un vero e proprio “patrimonio” della cultura pop giapponese.
Tutto è iniziato il primo ottobre, giorno in cui è entrato in vigore un aumento di dieci yen sulla consumazione. A prima vista, leggendo dell’entità dell’aumento, l’effetto potrebbe sembrare minimo, ma a quanto pare questa è un’impressione che vale solo dall’esterno, se è vero che molti anziani gestori di sale arcade si sono lamentati con termini apocalittici, come riportato da Kotaku. In effetti, basta un po’ di senso comune per rendersi conto di come una differenza di dieci yen non sia certo una cosa da poco. Parliamo infatti di un Paese nel quale la sala giochi è una sorta di luogo rituale per larghe fasce della popolazione: dagli studenti a imprenditori e persone in pensione, con tutte le complicazioni del caso, come la diffusa ludopatia.
A dire che c’è una crisi in atto e che un aumento potrebbe avere un impatto pesante sui consumi e sul mercato sono anche i dati degli scorsi decenni: sempre secondo Kotaku, dal 2006 al 2016 le sale arcade nel Sol Levante sono passate da circa 24.000 a 14.000, segno che, nonostante lo status-symbol di questi luoghi e il fatto che che abbiano saputo tenere testa all’home gaming, qualcosa stia cominciando a cedere.
I timori di un colpo di grazia potrebbero dunque essere fondati.
Se le notizie giunte dal Giappone concordano, significa che una sorta di pilastro della società giapponese contemporanea sta cominciando inesorabilmente un declino che potrebbe avere delle conseguenze abbastanza interessanti sull’economia del gioco nipponico, ma non solo: a rischiare di modificarsi è un pezzo importante della cultura del paese e persino della sua immagine all’estero.
Dai, fate mente locale; quanti ricordano puntate su puntate dei propri anime preferiti in cui compaiono file di cabinati fra i quali i protagonisti della serie si muovono in cerca di un po’ di svago? Si tratta di un qualcosa ormai entrato nell’immaginario collettivo e questo, se si parla di un paese come il Giappone, dovrebbe far riflettere. Come ogni società, anche quella nipponica è portata ad autocelebrare all’infinito riti, usanze, modi di fare popolari attraverso la sua letteratura (i manga, soprattutto), il cinema e gli anime. Capite quindi come una diffusa crisi del settore possa significare anche una profonda mutazione nella società nipponica, con una capitolazione definitiva del gaming old-style.
Certo, più che questa crisi a colpire davvero dovrebbe essere la fortissima capacità di sopravvivenza e adattamento di un’industria che, almeno sulla carta, doveva essere stata superata ampiamente da nuovi sistemi di intrattenimento, più al passo con i tempi, ma qui entrano in gioco fattori peculiari di quella società, fattori la cui comprensione sembra davvero difficile se vista dall’esterno. Potremmo parlare proprio di tradizione, di classici che affondano le radici nell’industria del gaming nipponica, a cominciare, per esempio, dallo Street Fighter di Capcom. E qui, forse, troviamo un altro punto di interesse in questa storia.
Non sempre è facile, da una prospettiva lontana geograficamente e culturalmente, comprendere processi di diffusione o resistenza delle tecnologie in un dato contesto, soprattutto se li mettiamo a confronto con quelli di casa nostra: nello specifico, colpisce il fatto che, al contrario che in Giappone, in Italia i cabinati siano stati superati in maniera sensibile da almeno vent’anni (come minimo).
Se davvero l’incremento dei prezzi, la sempre più capillare affermazione di nuovi dispositivi da home gaming e in generale lenti cambiamenti nelle pratiche sociali vedranno l’epoca dei videogiochi da sala concludersi anche in Giappone, forse sapremo di aver perso un vero e proprio patrimonio culturale.
Pop, ma pur sempre culturale.
This post was published on 8 Ottobre 2019 12:33
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