Anche se per molti videogiocatori il suo nome non vuol dire molto, Troy Baker, classe 1976, è quel che si dice un mito: doppiatore di giochi, ha all’attivo nel suo curriculum una lista quasi infinita di successi, inclusi titoli come The Last Of Us, BioShock Infinite e Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, tre titoli che, da soli, basterebbero a far entrare qualsiasi professionista del settore nell’olimpo del doppiaggio. Una carriera straordinaria, che l’ha reso uno dei protagonisti di una componente dell’industria spesso sottovalutata, ma centrale. Fra i suoi ruoli storici ne troviamo uno che è tornato prepotentemente alla ribalta, e non in un modo piacevole: quello di Rhys, personaggio di Tales from Borderlands (spin-off della saga action-rpg targato Telltale) approdato in Borderlands 3, ma non più interpretato dall’attore, a differenza di quanto programmato inizialmente… e non per una sua semplice scelta.
Volete sapere cos’è successo?
Seguiteci in una storia fatta di rivendicazioni, sindacati e, per alcuni aspetti, sfruttamento…
Dato il successo del personaggio e, in generale, di Tales from the Borderlands, la produzione di Gearbox è sembrata da subito interessata a inserire Rhys nel nuovo capitolo della saga principale del brand, in modo da creare anche maggior legame fra tutte le sue emanazioni. Del resto, Rhys era uno dei personaggi iconici dell’intera operazione, capace di rendere il gioco indimenticabile. Farne un tassello per una storia più grande e corale sembrava quindi una mossa vincente e ovvia, e lo stesso Baker si era detto entusiasta del ritorno a indossare quei panni… cos’è successo allora? Perché Baker non ha prestato la sua voce al png?
E’ qui che la questione si complica, e non di poco.
La rottura fra Baker e Gearbox nasce infatti dal fatto che l’azienda non ha a tutt’oggi aperto alcun dialogo con una delle realtà più importanti cresciute in seno all’industria negli ultimi anni: lo Screen Actors Guild-American Federation of Television and Radio Artists, il sindacato degli artisti che comprende anche gli addetti al doppiaggio, che da alcuni anni si batte per contrastare quelle che reputa delle condizioni di lavoro molto discutibili imposte dalle major alla categoria. Un fatto inaccettabile per Baker, che ha preferito defilarsi e lasciare a malincuore uno dei suoi personaggi più amati.
All’interno di uno scenario sempre più competitivo e frenetico, quale l’industria del videogioco, la categoria del doppiaggio è una delle più sottovalutate ma al contempo importanti per la riuscita di un prodotto, soprattutto all’interno del mercato americano. In un contesto nel quale l’opera videoludica è considerato un investimento importante e un’opera d’intrattenimento perfettamente in linea con i canoni dell’industria su larga scala, in grado di generare introiti molto importanti, l’aspetto dell’interpretazione dei personaggi è un argomento trattato con molta serietà.
Se infatti la realizzazione tecnica è curata nei minimi dettagli per far sì che il gioco sia performante, team di sviluppo e publishers hanno da tempo adottato una politica di valorizzazione delle parti recitate. Da una parte ha quindi reclutato attori esperti e di lunga data, in grado di dare un prodotto finale di altissimo livello (è il caso, fra gli altri, di Keifer Sutherland negli ultimi Metal Gear Solid a direzione Kojima), dall’altra hanno visto nascere dei veri e propri talenti arrivati in poco a diventare star del campo, come lo stesso Baker. Lo scenario che si è andato a creare è stato quindi quello di un mercato nel mercato, in cui figure con un certo seguito di fan vengono pagati con compensi notevoli per rendere i singoli giochi ancor più di valore, in maniera non troppo distante da come avviene con gli attori di Hollywood.
E, se ci pensiamo, non poteva che essere così: l’imponenza delle produzioni rende necessaria un’imponente valorizzazione, in grado di creare anche degli idoli con l’obiettivo di “avvicinare” i personaggi al pubblico più sensibile al lato artistico, dando ai personaggi dei “volti umani”. Tutto molto bello, non fosse per un dettaglio non da poco: recitare in un videogioco è molto più difficile che recitare in un film, e questo crea delle condizioni di lavoro a volte assolutamente infernali, al limite dello sfruttamento.
Immaginatevi nei panni di un doppiatore di videogiochi. Avete in mano il vostro copione, che non è un copione “lineare” come quello di un film o di un episodio di una serie TV, ma un faldone pieno di battute “situazionali”, ovvero che riguardano tutte le possibili situazioni nelle quali il PG può trovarsi nel corso dell’avventura, da quelle delle fasi scriptate a una singola battuta di commento alla pioggia che cade. Poi tenete presente la durata di un videogioco, e comincerete a comprendere che la mole di lavoro non è esattamente facile da affrontare. Soprattutto perché, come sappiamo, il lavoro di sviluppo di un videogioco è fatto di tempi serrati e scadenze imrprogabili, che portano a crunch e crisi nei team.
Capirete allora l’esigenza di una regolamentazione delle condizioni del lavoratore medio, superstar oppure no.
Il dato che ne emerge è inquietante: a fronte di una finalmente raggiunta maturità artistica dell’industria del videogioco, riemergono di fatto contrasti e tensioni sociali che sembrano usciti da scenari novecenteschi, caratterizzati da ben altri contesti lavorativi, che sembrerebbero distanti anni luce da quelli di puliti uffici destinati all’industria creativa.
Corsi e ricorsi storici, diceva qualcuno.
This post was published on 1 Ottobre 2019 12:39
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