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Mobile Gaming: tra un passato problematico ed un futuro radioso

Sembra quasi ieri quando gli Smartphone irruppero nella nostra vita, condizionando la società e la realtà di tutti i giorni sia nei più piccoli che nei più grandi aspetti. In pochi però avrebbero potuto immaginare di poter giocare a titoli videoludici qualitativamente validi e all’avanguardia quando il massimo che si poteva aspirare nelle epoche passate erano versioni striminzite di Tetris, Puzzle Bubble o Snake. 

Con l’avvento di servizi come Apple Arcade e di sempre più attenzioni ed investimenti da parte dei big dell’industria, la piattaforma mobile è sull’orlo di diventare non solo la più popolare tra i giocatori occasionali (ed è già così da molto tempo), ma anche un nuovo lido per gli appassionati del medium che per anni hanno preferito le proprie console e PC per varie cause e ragioni.

Ma come ci siamo arrivati a questa nuova era del gaming per cellulare? Dove sono state gettate le fondamenta per questa sorta di rivoluzione? Per scoprirlo bisogna tornare agli albori di questo genere di videogiochi, a cosa rappresentavano, quale fosse il loro obiettivo e soprattutto in che modo funzionavano e facevano presa sui giocatori.

I meravigliosi anni 10′

Vi ricordate l’inizio di questo decennio? Tutti quei meme cringe con gli epiteti, i Black Eyed Peas, Obama e l’inizio della crisi economica divenuta poi crisi sociale per il mondo intero ed esistenziale per la maggior parte degli attuali giovani ventenni? Ecco, questo è stato lo starting ground per gli Smartphone. 

In un mondo in cui il rapporto interpersonale diventava sempre più complesso e per alcuni controproducente, la possibilità di avere tra le mani una perenne connessione al mondo del web o dei social è ben presto divenuta una ragione lavorativa, d’escapismo o addirittura d’essere. Ciò è per certi versi il motivo del successo dello Smartphone, qualcosa di più di un semplice telefono cellulare.

In tutto questo, anche il gaming su mobile si è evoluto. Compagnie come Gameloft, che già sviluppavano i primissimi titoli per cellulari nei primi anni 2000, iniziarono a vedere le potenzialità tecniche dei nuovi cellulari, specie dei nuovi modelli di iPhone, e giochi come N.O.V.A o addirittura Infinity Blade di Epic Games dimostrarono che tali potenzialità potevano esser raggiunte, con i giusti compromessi ovvio. 

 

Questi titoli erano molto simili a quanto già visto sulle console, dove le uniche differenze di design erano legate a qualche gimmick per il touch screen o ad un downgrade grafico dovute alle limitazioni hardware. Ma il grosso dei videogiochi disponibili negli App Store e nei Google Play di tutto il mondo erano di tutt’altra tipologia, qualcosa legato più ad una fruizione “mordi&fuggi”, qualcosa che poteva regalare qualche minuto di divertimento a chi andava in pausa, aspettava l’inizio di una lezione o andava…beh, sì, al gabinetto.

Venne dunque l’alba di titoli come Fruit Ninja, Angry Birds, Temple Run, Jetpack Joyride, titoli pensati per avere una longevità orizzontale ed infinita, accompagnati da porting concettuali e rivisitazioni di grandi format del gaming come i tantissimi cloni di Bejewled, e perché no, anche il tentativo di qualche casa di sviluppo AAA che voleva afferrare una fetta del mercato, come ad esempio Nintendo, una delle prime ad offrire spin-off delle proprie IP di una certa qualità anche su mobile. 

Con un parco titoli così grande dedicato ai bisogni e alle attenzioni delle masse, non ci saremmo dovuti stupire dell’enorme successo di questo genere di formule che tutt’ora dominano il mercato del mobile. Quello che però è stato più difficile da digerire è stato come i problemi e le tattiche di mercato che il mobile si è sempre portato appresso siano riusciti ad influenzare anche il gaming su console e PC. Sì, stiamo parlando delle microtransazioni.

“Devo pagare per giocare di più? Al rogo, al rogo questo aggeggio demoniaco!”

La strategia di mercato dei giochi mobile di quest’era era la seguente: offrire il prodotto gratuitamente ma con delle limitazioni temporali per non far avanzare il giocatore e costringerlo a farlo attendere minuti od ore per ricominciare a giocare. Data la portabilità del gaming su cellulare e l’idea di fondo che il giocatore gioca a questi titoli solo quando ha tempo libero, è una strategia efficiente e sensata.

Quello che le compagnie hanno intuito è che, se data la possibilità, molti tra i giocatori casuali inconsapevoli del mercato videoludico o addirittura quelli più competitivi ed agonistici avrebbero pagato soldi reali per esser più prestanti e per poter giocare di più con più bonus. Ed è stato questo a spingere le microtransazioni.

Simpson Tapped Out, il franchise dei Clash, Dungeon Keeper Mobile, Angry Birds 2sono solo alcuni degli esempi di giochi mobile il cui intero sistema ruoto attorno alle microtransazioni, che mettevano in netto vantaggio chi pagava rispetto a chi invece preferiva farmare ore ed ore senza spendere un centesimo. Già per questo motivo molti di chi si consideravano “veri videogiocatori” ostentavano i titoli per cellulare, considerati tutti quanti alla stregua di applicazioni succhia soldi. Ma il peggio doveva ancora venire.

Durante l’Ottava Generazione di Console, moltissimi sviluppatori AAA iniziarono ad inserire microtransazioni anche su giochi venduti a prezzo pieno, oltre che ai classici DLC ed update. In giochi come Overwatch seguivano uno schema simile a titoli Free-to-Play come League of Legends, dove potevi comprare equipaggiamento esclusivamente estetico, ma per altri titoli con multiplayer competitivi vi era anche l’opzione di comprare più valuta di gioco, moltiplicatori d’esperienza, personaggi veri e propri, insomma vantaggi tangibili. Eclatanti sono stati i casi di Star Wars: Battlefront 2 o di Middle Earth: Shadow of War, e sarebbe inutile tornare a parlarne.

Questa onta è stato ciò che ha trattenuto una grossa fetta di videogiocatori a dare fiducia al mondo del gaming mobile, che per molti anni è rimasto stantio e privo di spinte evolutive visto che ha sempre avuto abbastanza pubblico per funzionare per conto suo. Fortunatamente, le cose stanno cambiando.

Un futuro radioso costruito sugli sbagli del passato

 

Tra Stadia, cloud-gaming e game pass, sembra che il futuro dei videogiochi non sarà una semplice corsa a chi ha la console più potente, ma anche a chi offrirà il parco giochi più accessibile al grande pubblico. 

È per questo che servizi come Apple Arcade potranno rivelare il vero potenziale del gaming su mobile: decine di titoli sviluppati da nuovi game directors, da piccoli developers indipendenti o addirittura da grandi geni e personaggi come Sakaguchi in persona, tutti quanti a portata di mano e da provare gratuitamente per un periodo limitato di tempo, per poi decidere se pagare per l’intero servizio o no.

Il potenziale c’è, e ignorarlo solo perché si parla di mobile gaming sarebbe controproducente per l’intera industria. Se mi concedete una piccola opinione personale e franca, io stesso sono il primo ad esser sempre stato scettico su questa piattaforma di gioco, che non ha mai suscitato il mio interesse per più di qualche ora di gioco per poi disinstallare il titolo X o Y per far spazio alla memoria del mio cellulare.

Eppure sono curioso. Voglio vedere se lo Smartphone avrà modo di dimostrare ai videogiocatori e al medium il suo valore e scrollarsi di torno l’onta del passato. Per farlo, basterà semplicemente aspettare e vedere cosa sfornerà il nuovo servizio di Apple.

Una cosa è certa, purtroppo: finché non mi comprerò una periferica di controllo a parte, i miei pollicioni mi daranno un sacco di problemi nel mentre cerco di giocare a qualunque cosa diversa da Pokémon Shuffle. 

 

 

This post was published on 30 Settembre 2019 9:30

Riccardo Liberati

Classe 1997, cresciuto immerso dai libri, cartoni e videogiochi, ho sempre desiderato e provato fin dalla tenera età a creare storie fantasiose che rendessero un po' più brillante la mia vita monotona. Ho trascorso l'infanzia in solitaria, giocando a quanti più titoli possibili, spaziando dai vecchi J-RPG di Square Enix fino ai più violenti sparatutto su PC, non disdegnando nel frattempo RTS, platform e giochi di corse automobilistiche. Alle superiori riesco finalmente ad aprirmi e a trovare dei compagni con i miei stessi gusti e sogni, e capisco che non amo tanto i videogiochi, quanto la cultura ed i messaggi dietro di essi, gli stessi che ho sempre trovato nei libri, film e qualsiasi altro tipo di medium artistico. Inizio a lottare per questo concetto scrivendo all'impazzata ed accrescendo la mia cultura ancor di più, sia attraverso la scuola che attraverso gli incontri e le persone d'ogni giorno. Questo bel sogno finisce con l'arrivo all'università, periodo peggio di qualsiasi film horror che abbia mai visto e che mi costringe a mollare tutto e rifugiarmi nella mia Fortezza della Solitudine per tre anni, perdendo interesse e linfa vitale per qualsiasi cosa. Nel frattempo ho lavorato in numerosi settori, dall'aiuto vendita al libraio al tutor privato, e nel 2018 inizio a scrivere per Player.it, il mio primo incarico ufficiale come giornalista videoludico e che mi ha formato moltissimo sia nell'ambito dei videogiochi che in quello della scrittura basilare. Oggi ho ripreso a studiare grazie alla scelta repentina ed irrazionale di iscrivermi alla Scuola Holden di Torino, luogo da cui vi scrivo, abbandonando casa per la prima volta ed il luogo natale di ogni mio piccolo successo e grande fallimento. La mia speranza? Quella di poter riuscire a trovare una strada ben delineata, facendo quello che mi piace fare senza dovermi sottomettere a nessuno

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