Fra le caratteristiche più divertenti e piacevoli dell’industria videoludica, capace di strapparti un sorriso quasi intenerito, c’è il fatto che a volte scorrendo le notizie del giorno possa uscir fuori qualche fatto relativo a giochi che pensavi ormai appartenenti a un’età antica e quasi mitica, giochi che hanno costituito un pezzo importante della storia del nostro medium preferito e delle nostre vite di giocatori, ma ormai “sorpassati”. Ebbene, questo è uno di quei giorni, e la notizia è di quelle che colpiscono: dopo cinque anni dall’ultimo aggiornamento, Valve ha rilasciato un nuovo update per Half-Life 2, che corregge alcuni difetti e fa sì che uno dei capolavori fondativi del videogioco contemporaneo torni sulle bocche di molti…
Rilasciato poche ore fa, l’aggiornamento al software include la correzione di alcuni dettagli: sono stati rivisti alcuni elementi legati al sonoro, con l’introduzione di alcuni effetti relativi ai nemici, la risoluzione di problemi di salvataggio e altri inerenti al VR. Infine, un dettaglio grafico insolito: con quest’ultimo aggiornamento, infatti, i personaggi del titolo Valve possono di nuovo, finalmente… sbattere le palpebre.
Sì, avete capito bene: a quanto pare, l’ultima patch rilasciata nell’ormai lontano 2014 aveva leggermente intaccato il gioco creando un piccolo bug per il quale alcuni PNG di HL2 non potevano più chiudere gli occhi, come accadeva al momento dell’uscita.
Curioso, vero? Beh, riflettendo sulla portata delle modifiche potremmo quasi intuire ciò che alcuni di voi staranno pensanso: cosa spinge una delle case di produzione più importanti, autoriali e tutt’ora sulla cresta dell’onda a lavorare ancora su un progetto così vecchio (e a non lavorare, piuttosto, su un possibile e attesissimo sequel?)?
Intendiamoci: le notizie di videogiochi nati nei primi anni 2000 (una generazione centrale per il gioco moderno, sia da un punto di vista tecnico che narrativo) supportati per anni o anche decenni sono meno rare di quel che possiamo pensare. Una caratteristica che naturalmente vale soprattutto per prodotti pensati per avere un’altissima rigiocabilità, come i titoli multiplayer, ma che in realtà sempre più spesso si è estesa a giochi in single come gli open-world o action rpg, ossia a categorie che permettono una costante espansione del narrato attraverso l’introduzione di nuove missioni, nuovi eventi narrativi, nuove sezioni di gioco come sfide o altro. Tutte caratteristiche che richiedono anche un certo costante supporto tecnico.
Tuttavia, Half-Life 2 non appartiene a nessuna di queste due categorie, anzi: uscito nel 2004, era il simbolo di un tipo di videogioco d’azione che proprio in quegli anni stava testando le proprie potenzialità narrative attraverso strutture sostanzialmente lineari e incentrate sugli script e su un forte elemento cinematografico, pur non mancando i tentativi di level design e soluzioni di gameplay più vari e affascinanti (qualcuno ha detto pistola gravitazionale?). Half-Life 2 è una vera e propria pietra miliare di quell’epoca, e chi l’ha vissuta ricorda bene il clamore della stampa specializzata attorno a un videogioco in grado di alzare l’asticella dell’esperienza ludica attraverso la messa in scena di una storia fantascientifica dai perfetti connotati cinematografici; tuttavia, i margini di rigiocabilità sembrano non andare molto più in là di sporadiche rinstallazioni nel proprio PC per onorare un videogioco così importante.
Ma, al di là di queste forse ciniche o semplicistiche domande sul senso dell’operazione di supporto, è davvero così strano che uno studio di produzione continui a perfezionare con convinzione un titolo ormai appartenente a più di una generazione fa?
Se teniamo conto della natura di un videogioco, ovvero un software basato su un codice aggiornabile e perfezionabile attraverso il lavoro di un team, la domanda che dovremmo porci circa l’impatto di patch e upgrades sul ciclo di vita di un gioco non è “Ma perché sprecare tempo a perfezionare classici usciti anni fa?” ma, al contrario, “Perché non fanno tutti così?”.
Partiamo dal presupposto che l’epoca artistica e letteraria in cui viviamo-il postmodernismo-è caratterizzata, fra le altre cose, dalla tendenza ad aggiornare le opere d’arte di edizione in edizione. Il mercato dell’home video è pieno di edizioni director’s cut di film usciti anche quarant’anni fa e non di rado bestseller come quelli di Stephen King vengono riproposti con nuove aggiunte o tagli di frammenti di testo. Qualsiasi produttore di valore artistico è portato a rielaborare le proprie opere per ragioni di profitto o anche, semplicemente, per “aggiornare” la propria opera approfittando di tecnologie sempre più sofisticate (vedi il caso Star Wars, rielaborato da George Lucas moltissime volte nel corso degli ultimi quarantadue anni), e ciò non poteva che valere per una delle “arti” più “malleabili” al mondo, quale la programmazione.
Se questa è la filosofia dominante, appare chiaro come il videogioco, per le caratteristiche di cui parlavamo poco sopra, non possa che essere l’opera-simbolo di questa tendenza.
Infine, parliamoci chiaro: una tale abnegazione e attaccamento a un proprio gioco è o no, in un mercato caratterizzato anche da videogiochi dal ciclo di vita che dura spesso anche solo pochi mesi, un grande messaggio di amore per il proprio lavoro e per la propria arte?
This post was published on 28 Settembre 2019 12:24
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