I gameplay dimostrativi di The Last of Us -Part II rilasciati qualche giorno fa hanno entusiasmato i fan della saga e acceso i riflettori su alcune caratteristiche fondamentali del gioco grazie a una grafica da pelle d’oca, un gameplay all’apparenza coinvolgente e intenso e soprattutto un’atmosfera perfetta, resa soprattutto da un modo di trattare la violenza in-game in modo maturo e molto crudo. A sottolineare ciò troviamo il fatto che, a detta degli sviluppatori, ogni PNG nemico che affronteremo avrà un proprio nome e delle relazioni strutturate con i loro compagni di squadra, dandoci l’idea di star combattendo contro persone e non contro semplici nemici. Fino a che punto riuscirà a spingersi Naughty Dog nell’ “umanizzazione” dei nostri avversari? Fino a che punto riusciremo a non provare rimorso per la morte di uno di loro?
Regole brutali per un mondo brutale
Stando alle dichiarazioni del team di sviluppo, il tema fondamentale del nuovo kolossal (in uscita il 21 febbraio 2020) sarà la violenza in senso “totale”, e il trailer di annuncio della data di release del gioco sembra sottolineare questo aspetto: la causa scatenante di questa nuova storia dovrebbe essere un episodio che sembra sconvolgere profondamente la vita di Ellie, e quello che sembra il suo “viaggio di vendetta” appare caratterizzato da sequenze di gioco violente, nelle quali l’uso della forza bruta potrebbe portare il giocatore a dover adottare dei metodi di aggressione di sicuro non adatti ai deboli di cuore.
Del resto, da questo punto di vista già The last of us era di fatto una sorta di parabola su quanto l’istinto di sopravvivenza possa arrivare a cambiare le persone e a renderle “peggiori” di come sono, un tema in linea con molte altre narrazioni postapocalittiche degli ultimi anni, da La strada (romanzo di Cormac McCarthy sulla lotta per la vita di un padre e un figlio in un mondo distrutto dal riscaldamento globale) a The walking dead (serie Telltale compresa).
L’impostazione di TLOU2 sembrerebbe tuttavia portare questa “questione morale” a un altro livello, quello dello scontro, del conflitto, della violenza generata dall’odio.
E’ dunque quasi logico il fatto che a Naughty Dog serva una sorta di “miccia” per far sì che questo meccanismo narrativo sia effettivamente fruibile dai giocatori, come può esserlo il dare corpo ed emozioni ai personaggi che saremo chiamati a uccidere, anche probabilmente mettendogli in bocca frasi che raccontino qualcosa di loro: chi sono, da dove vengono, che rapporto c’è con gli altri PNG e persino se hanno o meno una famiglia. Sarà sufficiente a farci sentire il peso della violenza?
NPC: troppo “impersonali”?
Il giorno in cui potremo metter mano al gioco è ancora abbastanza lontano, quindi ci sembra più che ragionevole raccomandare di non passare ulteriore tempo ad alambiccarci in modo ossessivo sulla questione, anche se la qualità della narrazione di ND ha di rado deluso le attese dei fan per quanto riguarda l’intensità e la maturità delle sue storie. Certo va rilevato come, nel panorama attuale, la ricerca di un gameplay “moralmente d’impatto” di The Last of Us 2 sia raro all’interno panorama contemporaneo.
Nonostante il videogioco abbia da tempo adottato modelli narrativi i cui fulcri drammatici fanno presa su concetti quali moralità, decisioni difficili e conflitti interiori, spesso in termini di gioco i nostri avversari tendono a rimanere pedine destinate al sacrificio in nome della spettacolarità o del puro e semplice svago. Niente di drammatico, ovvio. Per quanto siano evidenti le sue potenzialità a livello di induzione dell’utente alla riflessione, testimoniate da svariati esempi, va detto che è comprensibile la scelta adottata da molti team di rendere i nostri nemici impersonali e quindi “semplici da uccidere”, tuttavia questo fatto, incastonato all’interno di storie che tendono a mettere in risalto la bruttezza della violenza, può risultare quasi paradossale. Per fare un esempio, chi scrive ha trovato non poco fuori luogo alcune esclamazioni di gioia pronunciate da Amicia, protagonista di A Plague Tale: Innocence dopo l’uccisione con successo di un nemico: non è paradossale mettere un elemento del genere in un contesto narrativo che in altri frangenti riesce a mostrare quanto inensata e terribile possa essere la violenza?
In ogni caso, adesso è solo da vedere se e quanto TLOU2 riuscirà a sacrificare parte della sua “accessibilità” per creare un’opera veramente ambiziosa.
Brothers in Arms: un esperimento interessante
Prima di lasciarvi, chi scrive voleva ricordare una vecchia gloria del 2004/2005 targata Gearbox che tentò in parte un’operazione del genere.
La serie Brothers in Arms (fps tattici nei quali dovevamo guidare una squadra di nostri commilitoni durante lo Sbarco in Normandia) non mirava certo all’obiettivo di farci sentire da schifo uccidendo soldati tedeschi, ma col senno di poi è stato un tentativo quasi unico di dar vita a una narrazione action in cui i nostri compagni di squadra non erano semplici comprimari in un’epica, ma “cittadini in uniforme” con mogli e figli la cui morte derivava da eventi bellici tanto devastanti quanto tragicamente “casuali”, come in un vero contesto bellico.
E ogni morte pesava, e non poco.
In anni più recenti, infine, un esempio interessante di serie con un gameplay in grado di mettere il giocatore di fronte a PNG con una personalità alle spalle, in grado di avere un rapporto unico e peculiare col personaggio giocante, è stato il nemesis system della serie L’ombra di Mordor: ogni generale e capotribù orco incontrato nel titolo di ambientazione tolkeniana reagiva in maniera coerente alle nostre azioni, di fatto sviluppando rendendo l’esperienza di gioco di una persona molto diversa da quella delle altre.
The Last of Us, però, sembra voler fare molto di più rispetto agli esempi citati: sembra volerci sfidare a non premere il tasto attacco per una questione di empatia col nemico, a metterti nei suoi panni, a dubitare delle tue motivazioni e, forse, a toglierti la forza di continuare la tua avventura.
Un obiettivo troppo ambizioso?