Lo swatting, bizzarro e terribile fenomeno sociale diffuso principalmente negli Stati Uniti da un decennio a questa parte (la definizione ufficiale dell’F.B.I. è infatti del 2008) già protagonista di una nostra disamina regala sempre notizie in grado di generare ribrezzo e perplessità di ogni persona assennata, e il fatto che i casi registrati siano sempre più frequenti dà l’idea di quanto la questione stia diventando endemica. Oltre la condanna di un costume così aberrante, oltre la constatazione di quanto esso riesca a gettare fango sul mondo del gaming però c’è altro: lo swatting non riguarda infatti solo il gaming, e vari esempi arrivati da altri ambiti e con obiettivi molto diversi dall’odio fra giocatori ci danno l’idea di una dinamica sociale ormai consolidata e particolarmente tossica.
Come abbiamo più volte raccontato, lo swatting è una pratica particolarmente diffusa nelle community di videogiocatori online che consiste in un atto indimidatorio o lesivo a un altro partecipante a una partita attraverso l’invio di una squadra della polizia nella sua abitazione, intervento che di norma vede protagonista una squadra SWAT (Special Weapons and Tactics), corpi speciali dei dipartimenti di polizia metropolitana delle città U.S.A.
Sappiamo, a causa delle cronache in arrivo da oltreoceano, che si tratta di atti particolarmente gravi, a causa delle oggettive maniere non proprio morbide di questi agenti, che spesso ricorrono a un intervento violento per annienare “possibili minacce“, usando le proprie armi di ordinanza (veri e propri fucili d’assalto) per annientarle.
Solo ripetere per iscritto una cosa del genere fa venire la pelle d’oca: in pratica oggi negli Stati Uniti e in Canada qualsiasi cittadino può divenire responsabile del decesso di una persona mediante una semplice telefonata. Un paradosso che ha moltissime concause, dalla nota intransigenza dei corpi di polizia sino alla violenza diffusa che rende evidentemente “preferibile” dei metodi così violenti. Uno stato delle cose che la dice lunga sul grado di paranoia e di “militarizzazione” di alcune parti del Paese. Per non parlare di quanto questi episodi parlino del grado di aggressività ed estrema competività di alcuni ambienti, specie fra i più giovani.
Un argomento complesso, che riguarda non tanto il videogioco in sé, quanto la società statunitense contemporanea e le sue nevrosi, i suoi striscianti demoni in grado di creare sempre nuove fratture. Si tratta anche, in effetti, di un fenomeno che inizia a pesare fortemente nella società, se pensiamo che i casi aumentano sempre più e, con essi, le condanne (la notizia dell’ultima è, ahinoi, proprio di oggi).
Parlare di questo argomento è complesso: a meno di non vogliamo buttare il nostro ragionamento su una forse povera e inadeguata riflessione moralista sui problemi della società statunitensi, senza scendere più nel dettaglio, un semplice articolo sembra davvero la sede meno opportuna per fare un’analisi approfondita.
Ciò che però si vorremmo riflettere insieme è altro, e cioè su come in realtà lo swatting sia un fenomeno molto più complesso e variegato (e, per questo, preoccupante) di quanto possa sembrare. Se è vero che a far scalpore sono i suoi casi legati al videogioco, in realtà lo swatting è ormai talmente endemico da essere un fenomeno relativo alla società statunitense, al di là dell’ambito del gaming: per esempio, non tutti sanno che lo swatting è stato applicato anche contro abitazioni di celebrità. Qualche nome: Ashton Kutcher, Snoop Dog, Miley Cyrus e persino Clint Eastwood (sarebbe il caso di fare una battuta in merito a quest’ultimo tentativo d’aggressione, ma dato l’argomento pesante ve lo risparmiamo).
Quel che emerge quindi è un quadro se possibile anche più preoccupante di quel che pensiamo di solito sullo swatting, per due motivi. Primo, perché sorge il sospesso che la narrazione dei media si focalizzi su una sostanziale semplificazione del fenomeno vedendolo soltanto come qualcosa di interno alle comunità di giocatori, quando invece sembra trattarsi di qualcosa che occorre spesso in maniera trasversale, e sia il riflesso di un clima diffuso non solo “fra i giovanissimi” (come direbbero in qualche servizio televisivo volto a generare indignazione).
In secondo luogo, perché mette in luce la fragiltà non tanto delle communities del videogioco, quanto dello stesso sistema di informazione e di “virtualizzazione dei sentimenti” impegnata a criticare il mezzo videoludico.
Presupposto retorico e scontato: non sono mai solo le idee o gli interessi a creare qualcosa di dannoso, ma la struttura sociale nel quale quelle idee crescono.
Ancor più nel profondo è il modo in cui quelle idee vengono veicolate e creare reazioni distorte o peggio.
Se lanciamo un’occhiata sui fenomeni di swatting che emergono oltre gli steccati del gaming, guardando per esempio al cinema, l’idea che potremmo farci è che in realtà una certa responsabilità non ce l’abbia tanto Call of Duty quanto, per esempio, un sistema dei media che spesso banalizza e, ancor peggio, strumentalizza bassi istinti come l’invidia sociale. Si tratta di un’informazione rindontante, iper-diffusa e spesso incontrollata, che mina prima di tutto gli anticorpi culturali delle persone. Lentamente. Costantemente.
Non dovremmo quindi preoccuparci dei contenuti dei videogiochi (come invece sembra fare Walmart), ma di come alcune persone non sembrino avere né l’educazione né l’attitudine per stare in una società.
Ma forse è troppo complicato. Meglio dar la colpa ai videogiochi…
This post was published on 14 Settembre 2019 13:48
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