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Mocap: da orpello grafico a strumento di storytelling

Oltre a essere un action thriller dal setting affascinante e dall’idea originale, Control, l’ultima fatica di Remedy, ha attirato l’attenzione su di sé grazie alla fedele ricreazione dell’ambiente di gioco grazie a un uso intensivo del motion capture (che abbrevieremo in “mocap“), sofisticata tecnica di registrazione dei movimenti del corpo umano che nel mondo dell’intrattenimento (cinema, serie tv e videogioco, principalmente) viene utilizzata animare in modo verosimile personaggi e creature viventi.

Nel titolo Remedy, a fare da simbolo all’utilizzo massivo della tecnica troviamo un fatto molto particolare, forse non così inedito (come vedremo fra poco), ma davvero… puccioso: la trasposizione in formato digitale di un simpatico esemplare di Staffordshire Bull Terrier, Uuno!

Una comparsata deliziosa, che assieme a qualche altro esempio fa riflettere su quanto lavoro sia dietro la complessa realizzazione di uno straordinario mondo digitale, ma soprattutto su quanto il concetto di animazione abbia ormai un ruolo centrale nella narrativa di un gioco. Non ci credete? E allora seguiteci!

Uuno, la star di Control!

Il concetto è semplice: come in ogni grande produzione videoludica o di animazione 3d, sull’intero corpo del piccolo Uuno è stata applicata una classica serie di sensori collegati con un software, che con grande precisione consentono di ricreare non tanto il semplice aspetto fisico dell’animale, quanto la resa dei singoli movimenti in senso fotorealistico. I movimenti di sensori, infatti, vengono registrati attraverso speciali telecamere all’interno del set in grado di captare gli spostamenti dei sensori, permettendo una resa dell’animazione straordinaria.

Nel caso di Uuno, ovviamente, il lavoro del team Remedy è stato molto simile a quello operato nel cinema dai comparti dedicati all’addestramento degli animali di scena, un fatto che, se ci pensiamo, assimila ancor di più l’apparato produttivo del videogioco a quello di un kolossal hollywoodiamo, facendo levitare sempre più i costi da affrontare: l’addestramento di un animale per fini artistici rappresenta un lavoro estremamente difficile, basato su tecniche di condizionamento comportamentale molto sofisticate che hanno bisogno di un team esperto e dedicato.

Ora, nel caso di Uuno, che tutto sommato aveva un ruolo “semplice” (quello del simpatico cagnolino digitalizzato), lo sforzo non deve essere stato così difficile per il team preposto, trattandosi solo di riprendere le azioni base del cane in un contesto “quotidiano”, ma la situazione si fa molto più complicata se guardiamo a produzioni recenti e maledettamente ambiziose. Vi viene in mente nulla?

Parola chiave: cura del dettaglio

Come potrete immaginare, a causa della sua ambientazione Red Dead Redemption 2 è divenuto famoso per la massiccia applicazione della stessa tecnica utilizzata da Remedy con Uuno a una grande quantità di animali, primi fra tutti i cavalli, veri coprotagonisti del videogioco.Figure onnipresenti su di una scena composta da vaste praterie abitate da mandrie di cavalli selvaggi, i destrieri di RdR 2 sono stati ricreati fin nei minimi dettagli, risultando come una componente fondamentale dell’esperienza videoludica alla quale mirava Rockstar.

I cavalli, in RDR2, sono parte integrante della storia: merito anche del mocap.

Se il nostro obiettivo è analizzare l’impatto di queste tecnologie sulla qualità di ciò che giochiamo, produzioni di questo tipo sottolineano prima di tutto quanto i tempi biblici di produzione di un videogioco, corrispondenti alla cura del dettaglio della messa in scena, appaiano maledettamente giustificati (con buona pace dei fan del tutto-e-subito): ci troviamo davanti a compagnie che hanno la necessità di produrre settimane di girato che sarà alla base di animazioni che neanche risalteranno subito all’occhio di un giocatore.

Pazzesco, ma ormai non dovrebbe più sorprendere.

Se poi già l’applicazione di queste tecnologie all’apparato che di fatto permette l’immedesimazione del giocatore non fosse significativa, un discorso a parte lo merita l’applicazione del mocap a un ambito ben più interessante: quello dell’espressività facciale.

Quando l’immagine racconta una storia

Quando si parla di videogioco, a volte il comparto grafico può apparire come una sorta di “male necessario”: importante, a tratti centrale per il successo di un’opera, può però spesso ammantare prodotti senza anima o presto dimenticabili a causa di un lato artistico deludente. Col tempo, però, le cose sono cambiate: un mocap sempre più sofisticato non ha solo fatto sì che il videogioco diventasse un’opera d’arte visiva sempre più visivamente sofisticata, ma che la grafica diventasse uno strumento di storytelling.

Hellblade: quando il mocap diventa strumento di recitazione.

Uno dei giochi più struggenti degli utlimi anni, Hellblade: Senua’s sacrifice (che l’autore dell’articolo ha da pochissimo recuperato), non sarebbe lo stesso senza lo sguardo di Melina Juergens, il membro di Ninja Theory che ha interpretato la protagonista del titolo attraverso una sofisticatissima tecnologia di motion capture in grado di donare al nostro avatar espressioni estremamente umane.

Cosa vuol dire questo? Che il videogioco, visto in passato da molti detrattori come il simbolo di un digitale sempre più sostituto del reale e la temuta intelligenza artificiale all’uomo, sta invece rimettendo al centro la nostra umanità, prima di tutto riproponendo la necessità di attori in grado di mostrarci emozioni e far parlare il loro corpo.

Rendendo il videogioco una bellissima somma di tecnica e arte.

>>Leggi anche: Memorie di un videogiocatore #8 | La mia vita su Azeroth<<

 

 

This post was published on 28 Agosto 2019 10:29

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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