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Apex Legends: gli sviluppatori litigano online con i giocatori (e non è la prima volta)

Il social web, con i suoi tanti sistemi di comunicazione fra utenti, ha segnato l’inizio di una nuova era del rapporto fra artisti, creativi e, dunque, persone dietro lo sviluppo di numerosi progetti (anche videoludici) e il loro pubblico, portando delle straordinarie opportunità, come il poter avere un confronto diretto con le menti dietro i propri titoli preferiti. Gli sviluppatori hanno dunque aperto forum, profili social e blog, veri e propri megafoni della loro attività, instaurando rapporti con la base a volte strategici per il loro lavoro. Altre volte, però, strumenti di questo tipo sono armi a doppio taglio, capaci di far emergere situazioni estremamente critiche, come nel caso di un recentissimo botta-e-risposta fra membri del team di Apex Legends e alcuni fan, che ha creato non poco imbarazzo… e non è la prima volta.

Gli sviluppatori di Apex Legends contro tutti.

La questione è nata negli scorsi giorni, e anche per un fatto abbastanza delicato: il lancio di un nuovo kit di skin all’interno dell’evento online Iron Crown, che è stato messo sotto accusa dai fan in quanto additato come “caso loot box”, in quanto l’implementazione del nuovo set poteva essere ottenuta solamente attraverso un esborso giudicato troppo caro dalla community. Una questione che ovviamente ha subito allertato il team di Respawn Entertainment e lo ha spinto a modificare le modalità di attivazione rendendo il pacchetto liberamente scaricabile.

Basterebbe già questo primo elemento della nostra storia ad aprire un intero capitolo sul caso loot box e sulla questione dei rapporti fra utenza e team di sviluppo (qui un bell’editoriale in merito), con tutte le questioni legate a quanto la prima possa pesare, ai limiti dell’assurdo, sulle decisioni del secondo, ma ad appesantire ancor più il caso arriva un altro fattore.

Dal momento dell’annuncio del cambio di rotta attraverso un post sul blog ufficiale e un post su Reddit, Respawn è stata letteralmente assaltata da orde di fan che hanno iniziato a insultare in maniera molto forte i membri del team e la linea produttiva, fino a scatenare le reazioni del team, che ha risposto agli insulti e creato una vera e propria tempesta perfetta.

Un evento non del tutto inedito nel mondo del gaming: poco più di un anno fa, luglio 2018, era stato il turno di due sviluppatori di Guild Wars 2 che, attaccati su Twitter da due “haters”, avevano iniziato una lunga e accesa discussione che aveva portato il team a dover chiedere scusa a nome dei due programmatori per la situazione di tensione creatasi.

Un caso che ci permette di analizzare un po’ più da vicino alcune dinamiche sotterranee alla base di questi fenomeni.

Scavando più in profondità.

Avvertenza: ci stiamo per inoltrare in un territorio che tocca in maniera inevitabile degli argomenti della sfera socio-politica abbastanza spinosi, e nati con l’avvento dei social network.

La politicizzazione è uno dei trend delle discussioni online contemporanee, specie su forum specializzati o blog tematici, e spesso numerose dispute che sembrano nate da altro si vanno riallacciando a hot topic molto più vasti e complessi come razzismo, rivendicazioni identiarie, tensioni ideologiche. Come tante volte ricordato, le community e i fandom contemporanei si sono sempre più spesso saldate con questa o quella fazione o filosofia, riproponendo in maniera spesso molto radicale e polarizzata il conflitto fra posizioni conservatrici (o, per meglio dire, reazionarie) e progressiste.

Non sorprende quindi come, nel caso di Guild Wars 2, il duello fra le due programmatrici del team e i detrattori sia presto virato verso una polemica che vedeva le prime accusare i secondi di avere certe posizioni perché misogini, trasformando di fatto uno scontro su Guild Wars 2 su un’accesa sfida sul ruolo dei professionisti di genere femminile nel mondo dell’industria del gaming.

Clima esplosivo, non trovate? Insomma, l’impressione è che una serie di tensioni, più o meno fondate, trovino sfogo all’interno di ambiti come quello del gaming, più portati a far nascere dinamiche di dialogo e confronto “intellettuale“.

Questa non è certo una notizia, soprattutto se osserviamo le dinamiche degli ultimi anni, ma, se a scendere in campo sono gli stessi programmatori, ecco pronto un piccolo salto di qualità.

Problemi di disintermediazione

Concetti come “brand reputation” e “web identity” sono ormai diventate uno dei pilastri fondamentali del mondo dell’industria, con interi dipartimenti nati per tutelare l’immagine di un’azienda o un marchio in uno scenario mutevole e complesso come il social web. Concetti regolati da regole autoimposte molto importanti, basate su studi scientifici e di marketing.

La regola fondamentale è, in ogni caso: preservare la propria attività e non creare problemi che possano generare cali di vendita.

Casi come  quelli analizzati oggi mostrano tuttavia un parziale mutamento all’interno di esse, soprattutto all’interno di compagnie creative molto esposte come quelle dell’industria del videogioco, fisiologicamente più portate al confronto dialettico e al ragionamento (si tratta, in fondo, di ingegneri informatici). Laddove spesso in altri contesti produttivi come l’editoria o il cinema i singoli professionisti figurano sempre più come componenti di meccanismi più complessi e senza possibilità di espressione, nel caso del comparto videoludico, per un insieme di motivi storici e strutturali più geek e web friendly, i creativi sembrano dotati di tutti quei mezzi, quegli spazi di autoriflessione, nonché a un più largo accesso a messi di comunicazione che la favoriscono (come i blog) in grado di creare una sorta di reazione agli attacchi a cui solo sottoposti.

Non sappiamo se casi come quello dei programmatori di Apex Legends o di Guild Wars 2 siano destinati a ripetersi ma, in uno scenario che a volte diventa totalmente prigioniero di logiche commerciali che finiscono per annebbiare le figure dei singoli professionisti, l’esistenza di figure che si sentano il dovere di alzare la voce e difendere il proprio mestiere appare un bel segnale.

Il problema, semmai, è se l’industria saprà cogliere questo moto di orgoglio o se tenderà ad appiattirlo in funzione di ben altri obiettivi, più pratici e meno idealisti, come i suddetti cali delle vendite. E questo sarebbe un gran peccato.

>>Leggi anche: I Mech in Fortnite e la diatriba sui “giochi difficili”<<

This post was published on 19 Agosto 2019 11:32

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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