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Tre milioni di dollari per il vincitore sedicenne della Fortnite World Cup

Amato, odiato, guardato con interesse crescente da cultori, teorici e imprenditori degli e-sport, nei suoi due anni di vita Fortnite è riuscito ad attrarre su di sé i riflettori, ad arrivare in cima alla classifica dei giochi online più venduti e, soprattutto, a diventare un fenomeno di costume imponente.

Un successo in costante crescita, confermato dal moltiplicarsi della community e da un giro d’affari divenuto milionario, ma soprattutto da un evento epocale, la Fortnite World Cup, che quest’anno ha vinto la vittoria di un sedicenne statunitense. Soprattutto, però, quello di Fortnite è un fenomeno che ha ormai scavalcato i confini della stampa specialistica per diventare un fatto di pubblico dominio, con conseguenze che potrebbero essere interessanti per l’intero mondo del gaming.

Chi ha vinto la Fortnite World Cup?

Partiamo dai fatti: nella giornata di domenica, nella cornice dell’Arthur Ashe Stadium di New York City, il sedicenne Kyle Geirsdolf, detto Bugha, è arrivato primo nella categoria Solo del campionato (ovvero, la principale) intascando i tre milioni di dollari in premio e divenendo la star del momento (e vorremmo ben vedere…).

Essendo l’istituzione della world cup molto recente, a Bugha è ovviamente andato il titolo significativo di campione più giovane della disciplina sportiva videoludica, fatto che ovviamente ribadisce il fatto che quella del pro player sia una carriera professionistica dalle caratteristiche non dissimili a quelle di un vero e proprio sportivo con l’opportunità di costruirsi una posizione nel settore già a partire dalle scuole superiori attraverso sacrifici e duro allenamento.

Il campione della World Cup 2019 di Fortnite, Kyle Giersdorf

Ovviamente, come potrete immaginare, il cammino di atleti come Bugha verso il trionfo è lungo, passa attraverso qualificazioni che coinvolgono un circuito comprendente nazioni di tutto il mondo ed è ovviamente stato organizzato con dovizia in particolari da Epic Games, tant’è vero che la nostra prima story su quest’evento per certi versi “storico” risale a più di un anno fa.

In quelle settimane, a un anno circa dal lancio dello sparatutto multiplayer, il mondiale di Fortnite appariva come una sorta di conferma dello sviluppo di questo vero e proprio fenomeno videoludico, ma oggi, terminato il mondiale, abbiamo la conferma che le aspettative sono state superate.

Sulla bocca di tutti

Il fenomeno degli esports non è nato ieri, con l’esplosione di Fortnite, e sappiamo come l’impostazione di questo gioco ne abbia fatto un titolo divisivo per la comunità dei gamers, riuscendo a coinvolgere solamente determinate categorie di giocatori e venendo quasi disconosciuto, se non “odiato”, da altre (com’è naturale che sia).

E’ innegabile, tuttavia, come il circuito del titolo di Epic Games rappresenti un caso da osservare con molta attenzione per capire in che modo si stia evolvendo l’immagine pubblica del videogioco, anche in relazione alle dimensioni del fenomeno. Oh, sia chiaro: non ci stupiscono i trenta milioni di dollari utilizzati per organizzare l’evento, non ci stupisce il grandissimo numero di partecipanti, l’apparato organizzativo immenso ed estremamente complesso dietro all’evento. Al massimo, a stupirci è l’esatto contrario, ovvero che finalmente la stampa mainstream veda il videogioco fare prepotentemente irruzione sulle pagine web delle testate sportive.

L’impatto è stato certo dei più vari: alcune testate si meravigliano ancora per la giovane età del vincitore, altri fanno un ritratto dei partecipanti italiani all’evento facendo l’occhiolino all’orgoglio italico, ma cominciano a comparire esempi di cronache che mettono al centro il vero fattore di interesse degli esports, ovvero la sua funzione chiave all’interno dell’industria del gaming.

E qui viene il bello.

Fortnite come “testa di ponte”?

Le fiere di settore come E3, i campionati come quello di Fortnite, gli eventi ludici più onnicomprensivi come i vari San Diego Comicon o, per rimanere in Italia, il Lucca Comics & Games, sono sempre spie capaci di mostrare ai membri di delle varie comunità come i loro hobbies preferiti vengano recepiti all’esterno.

Pur essendo un evento certamente non rappresentativo dell’intero “mondo-del-videogioco” (che sappiamo essere una sorta di definizione davvero troppo vaga), il segnale che la storia del successo dei campionati di Fortnite ci dà è che l’industria e i creativi al lavoro sul nostro medium preferito (nonché i giocatori) abbiano davvero molto spazio di manovra per far sì che il videogioco venga sempre più considerato dall’opinione pubblica, anche mettendo in mostra le grandi differenze fra diversi generi e modi di utilizzo.

Se gli esports stanno trovando sempre più spazio sui canali di comunicazione dedicati agli sport tradizionali, quanto mancherà per far sì che i TG diano risalto ai Game Awards trattandoli come fenomeni di costume e commentando il videogioco vincitore come farebbero con il film vincitore dell’Oscar?

Beh, a giudicare dall’accoglienza dei mondiali di Fortnite, crediamo che non dovremo aspettare poi così tanti anni. E non vediamo l’ora.

>>Leggi anche: Il PEGI non diventerà legge. Facciamo chiarezza sulla questione<<

 

This post was published on 31 Luglio 2019 18:35

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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