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I videogiochi possono predire il futuro?

La fantascienza è stata spesso definita un genere narrativo simbolo della nostra contemporaneità perché, attraverso la sua costante messa in scena di scenari altamente tecnologici e in continua evoluzione, ha avuto il merito di predire molte innovazioni del modus vivendi dell’essere umano nell’ultimo secolo. Da Kubrick (2001: Odissea nello spazio) a Ridley Scott (Blade Runner), gli autori del genere sono riusciti a precognizzare molteplici sviluppi della nostra razza, divenendo a volte volani e ispiratori di scienziati e innovatori. E il videogioco? Qual è stato l’apporto del videogioco all’interno di questo progresso? Quanti sono stati i videogiochi in grado di prefigurare scenari futuri?

E soprattutto: il videogioco ha il potere di farlo? Parliamone assieme!

Premessa: il videogioco è un medium “maturo”?

Per rispondere alla nostra domanda dobbiamo fare un discorso generale e complesso, che va oltre il videogioco in sé e abbraccia tutte le forme narrative, a cominciare ovviamente dai già citati cinema e letteratura, nonché il loro lagame intenso e complesso con la fantascienza. E’ infatti a partire dagli anni ’50 che prima la letteratura e poi il cinema sono riusciti a elaborare delle riflessioni autonome e “di prospettiva” sul futuro, qualificandosi come speculative fiction.

All’interno di questo quadro, il ruolo del videogioco “di massa” è dannatamente complesso, poiché spesso, per come è stato immaginato dall’industria, esso rimane un prodotto dall’anima derivativa. Lo so, è una parolaccia e, se ci pensiamo, non adatta al nostro medium preferito se analizzato nella sua interezza ma, mettendo a confronto videogioco e cinema, quanti sono stati i giochi che fino a oggi sono stati in grado di dare il contributo di un Philip K. Dick all’esistenza di una “narrativa filosofica” in grado di riflettere sui grandi temi in maniera originale? E quanti invece sono stati i titoli in grado di imporre una visione innovativa su un aspetto della realtà? Ecco, chi scrive crede che questa sia la domanda fondamentale necessaria per dare un senso a questa riflessione.

Detroit: Become Human è un esempio di come anche il videogioco può fare “fantascienza intelligente” e filosofica.

Immaginare il domani

Molti dei grandi blockbuster del videogioco sono stati, per lo più, trasposizioni e omaggi dalla spiccata personalità in grado di regalare emozioni ai giocatori partendo dalla rielaborazione videoludica di altre opere, in modo manifesto o meno.

Metal Gear Solid, sulla carta, è l’incarnazione in pixels di Rambo e dei suoi fantasmi interiori; Skyrim o The Witcher, per quanto meravigliosi viaggi in mondi lontani, sono immensi omaggi alle epopee di Tolkien, Sapkowskj, Martin o ai poemi epici; i western e i crime di casa Rockstar tributi ai generi hollywoodiani ai quali sono ispirati.

Proprio per questo legame con altri medium, spesso derivativo (come accennato), trovare esempi di capolavori videoludici di genere fantascientifico capaci di sviluppare riflessioni profonde come un 2001 e Matrix è difficile. Non impossibile, certo: esistono almeno due grandi titoli, usciti a molta distanza l’uno dall’altro e molto differenti, che sono riusciti a precognizzare o a trattare alcuni temi della nostra contemporaneità. Se guardiamo allo scorso anno, infatti, Detroit: become human ha inserito all’interno del gioco un tema che sta diventando drammaticamente attuale come quello della robotizzazione dei luoghi di lavoro. In almeno due storyline del gioco di ruolo, infatti, la trama e parte della narrativa si basano costantemente sul conflitto fra esseri umani e androidi coplevoli di averli sostituiti all’interno della catena produttiva.

Si tratta di un elemento narrativo centrale e caratterizzante, che crea una serie di problematiche dolorose che ormai da qualche decennio si sono fatte largo nel nostro mondo.

Un altro esempio di precognizione, più vecchio e interessante perché più sottile, è invece secondo chi scrive Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty. Nel capolavoro del 2002  il giocatore medio si trovò infatti a una serie di sezioni, che da trama erano legate a realtà virtuali parallele e macchinazioni dei famigerati Patriots, assolutamente nonsense, che mettevano alla prova la nostra pazienza mediante delle scelte di trama francamente imbarazzanti che, tuttavia, a lungo giro inducevano alla riflessione su vari aspetti della storia, come il ruolo di Raiden, protagonista “sostituto” del leggendario Solid Snake quasi parodistico e capace di generare soltanto risatine e uno sconfortato “ridateci l’originale!”. In realtà, in un certo senso, Kojima aveva anticipato la cultura dei meme, quella del simbolismo demotivazionale e vagamente nichilista che, anni dopo, avrebbe caratterizzato il web e creato nuove forme di comunicazione e socializzazione basate sulla rappresentazione critica della realtà.

E infine, anche se il gioco non è ancora uscito, ricordiamo che buona parte del gameplay di Cyberpunk 2077 dovrebbe ruotare attorno al tema dell’inquinamento.

Primissimi esempi di meme culture!

Autorialità: rara ma presente

Quelli di Detroit e MGS2 sono due esempi di come anche prodotti mainstream, o comunque grandi produzioni, possano avere una radice autoriale in grado di affrontare affrontare il persente con un’ottica intelligente e porre spunti di riflessione ma, scavando negli annali del videogioco, siamo certi se ne possano trovare molti altri, specie per quel che concerne gli indie games. Non è un caso che entrambi i brand citati siano parti di due autori, David Cage e Kojima, in grado di fare dell’autorialità una loro cifra distintiva e, dunque, in grado di usare il videogioco per andare oltre la semplice narrativa (video)ludica per privilegiare funzioni più complesse del medium da loro utilizzato.

La scarsità di esempi in grado di portare non ci sorprende, in quanto non è semplice trovare team di sviluppo in grado di includere delle figure di spicco, dotate di carisma e capacità di dare un ampio respiro alle loro opere.

Non preoccupiamoci, però: man mano che il videogioco si svilupperà e uscirà dalle nicchie nelle quali media spesso ottusi l’hanno rinchiuso, gli autori in grado di portare avanti le capacità espressive del medium si moltiplicheranno. E forse vedremo sempre più Kubrick del videogioco in circolazione.

>>Leggi anche: 7 (+1) videogiochi platform per PS1 che in pochi conoscono<<

This post was published on 27 Luglio 2019 11:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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