Nuove modalità di gioco non previste dagli sviluppatori di un titolo, divertenti “variazioni sul tema” assolutamente nonsense create solo per puro passatempo, veri e propri giochi nati come innocue “fanfiction” partorite dalla mente dei giocatori: di anno in anno, di decennio in decennio, le mod sono diventare un punto fermo del videogioco contemporaneo, creando non solo nuovi modi per fruire titoli “già dati”, ma anche communities in grado di sbizzarrirsi in creazioni originali. Ma il discorso è più complesso: alcune mod, sono state sviluppate e portate avanti in maniera tanto efficiente da divenire la base di nuovi giochi e persino nuovi brand.
Con conseguenze inedite.
Tanti sono i punti di vista dai quali potremmo osservare il fenomeno mod per capirne l’importanza sia da un punto di vista videoludico che “artistico”, ma pensiamo che, per renderci conto di quanto l’apporto delle mod sia stato basilare all’interno del mondo del videogioco, dovremmo partire dalla Storia del medium.
Al contrario di quanto alcuni potrebbero pensare, il fenomeno mod è antico; come ci racconta il sito ufficiale di Nvidia, la prima vera e propria mod conosciuta è dei primi anni ’80, e si trattava di una modifica chiamata Castle Smurfenstein, nella quale i fan dell’epico e storico Castle Wolfenstein si erano divertiti a scambiare i perfidi nazistoni del gioco originali con i… dai, sappiamo che conoscete l’inglese e sappiamo che masticate abbastanza cultura pop da sapere che gli Smurfs altro non sono che i nostri Puffi.
Insomma, questa nostra story inizia molto lontano con un esempio che è quasi simbolico: già nei lontanissimi primi anni di vita del videogioco di massa, un gruppo di fan di uno degli sparatutto più in voga all’epoca e destinato a diventare un caposaldo ha deciso di contaminare l’opera originale di id Software con altri simboli della pop-culture del tempo, i piccoli pucciosi folletti blu belgi creati da Peyo nel 1958.
In quest’operazione ci sono alcune delle caratteristiche fondamentali di una mod di successo, almeno nell’accezione che la mod ha avuto nei suoi primissimi anni di vita: un gioco popolare, un brand conosciuto, un gruppo di smanettoni che modifica senza pietà creando qualcosa di assolutamente folle, mix in grado di dare vita a un vero e proprio fenomeno di costume capace essere ricordato nei decenni a venire.
Pur essendo una sorta di goliardata, in Castle Smurfenstein troviamo quindi l’ABC di una mod riuscita e di valore.
Possiamo dire che questa nasce nel momento in cui una community di giocatori (leggi consumatori) in grado di rielaborare un prodotto acquistato attraverso strumenti informatici e di diffonderlo capillarmente.
Quali i motivi? I più disparati. Davvero, non c’è un buon motivo univoco. Una mod, oggi, può nascere puro gusto della modifica, della “riprogrammazione”, della rielaborazione, ma anche di motivi ben più seri dai quali nascono i valori dell’operazione, che crediamo possano essere classificati in due tipologie: valore artistico e valore videoludico.
Dal punto di vista artistico, varie sono le mod che si sono dimostrate in grado di sorprendere per l’ambizione dei suoi sviluppatori di creare qualcosa di brillante. Citiamo un esempio: da Skyrim, uno dei titoli più moddati della sua generazione e in grado di sviluppare una foltissima community, è nato una in apparenza innocua mod dal vago sapore dell’avventura a sfondo archeologico, The forgotten city, nella quale l’eroe è chiamato a tornare indietro nel tempo e a salvare un’antica città romana da un destino ineluttabile. Una storia che sembra voler creare, sia nel setting che nelle modalità di gioco molto sofisticate, basate su loop temporali ed enigmi da risolvere,un punto di contatto fra Il giorno della marmotta e un film in costume. Una vera e propria avventura inedita, in grado di tagliare i ponti con il gioco di partenza e di dimostrare come un gruppo di creativi possa prendere un gioco di successo e usarlo come base per la propria creazione di successo, incontrando il favore del pubblico.
Dal punto di vista videoludico, invece, le cose sono più complesse e, per certi versi, affascinanti e funzionali alla dimensione del gameplay. Se fino a questo punto abbiamo visto la mod come gioco creativo (l’antica Smurfenstein, o questa simpatica mod) e come espressione artistica (l’appena citato The forgotten city), va a questo punto detto che una mod può nascere soprattutto per rispondere all’esigenza di creare una sfida ancora più appagante di quella che il gioco base può garantire.
Ragazzi, solo un nome: League of Legends.
Perché? Semplice. Quando nasce ufficialmente, nel 2009, LoL è sviluppato sulla base di una mod di Warcraft. Non World of Warcraft, Warcraft 3, lo strategico. La mod in questione era Defense of the Ancient, AKA Dota. E cosa scaturì dopo LoL, nuovo genere di gioco online dall’immenso successo nato da una piccola, semplice mod? Semplice: nacquero i MOBA (multiplayer online battle arena), che oggi sono presentissimi nel panorama videoludico. Cos’era accaduto?
Per rissumere: sulla base di ciò che già c’era (Warcraft 3), un gruppo di giocatori aveva pensato che semplicemente il già presente non bastasse più, sviluppando il gioco in una direzione diversa, con unità più piccole e con un gameplay più brutale.
Altri giocatori si erano aggiunti, decretando il successo dell’esperimento.
Un team aveva preso più saldamente in mano l’idea.
Un publisher, a quel punto, scelse di investirvi. Kaboom: la community aveva cercato altro all’interno di quel videogioco, spingendo il gameplay in altre direzioni, dicendo “sarebbe meglio così”, e aveva dato vita a un nuovo videogioco, un nuovo fenomeno. Il tutto sulla base dell’esperienza di intere community di giocatori che si erano ritrovate e, discutendo, avevano deciso di proporre altro dopo aver toccato con mano come un gioco potesse essere sviluppato meglio.
Qualcuno le era state a sentire. La storia ha dimostrato quanto avessero ragione.
Il fenomeno è senza dubbio molto più complesso e ricco di sfaccettature di quanto quest’umile story possa trattare e, senza dubbio, molti altri sono i passaggi produttivi che meriterebbero un approfondimento.
Quel che però è interessante focalizzare è un concetto che sta alla base di tutto il discorso: appropriazione, un termine da utilizzare con molta attenzione, ma ricco di significati.
Il videogioco, per sue caratteristiche intrinseche, è forse il medium sul quale l’utente ha più controllo; nella letteratura non possiamo far altro che intervenire/dare il nostro apporto in maniera indiretta, scrivendo una fanfiction, per esempio, e nel cinema la questione è ancor più complessa.
Il modding, invece, è la chiave d’accesso ideale per tutte quelle comunità che vogliano mettere le mani in pasta in ciò che fruiscono. E’ il dire “a me questa cosa non basta, voglio di più” nella sua forma più giocosa e artistica possibile, quella dell’alzare la posta in gioco, quella dello sfidare ciò che c’è e farlo diventare qualcos’altro.
In uno scenario mediatico mainstream in cui il videogioco è definita attività solitaria e divisiva, la presenza di communities di giocatori che riscrivono le regole del gioco insieme, a un livello in cui possono arrivare a proporre nuove idee sul mercato, dovrebbe far riflettere.
>>Leggi anche: Cronache da un mondo disconnesso: come mi ha salvato essere un single player<<
This post was published on 9 Luglio 2019 17:34
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