Lo streaming è stato senza dubbio uno degli argomenti forti di questa prima metà di 2019 videoludico, con tutti i grandi attori della scena intenti in una nuova corsa all’oro iniziata, ufficialmente, con l’E3 di giugno.
Una serie di servizi che hanno diviso l’utenza fra chi vi vede tecnologie ancora imperfette e chi crede che possano rivoluzionare la scena del gaming. Non sono poi mancati commenti da big del mondo del videogame, come quella di Shigeru Miyamoto (capo della divisione ricerca e sviluppo di Nintendo), che mettono in luce problematiche di natura tecnica come le infrastrutture ancora non adatte a questa tecnologia.
In questo quadro di fermento, discussione e incertezza, sono però realtà più piccole a fare piccoli passi in grado di mostrarci le potenzialità di essa, permettendoci di speculare su alcune applicazioni interessanti.
Il caso dal quale vorremmo partire per la nostra riflessione è Antstream, progetto britannico il cui lancio è previsto per il 18 luglio che ha un obiettivo che senza dubbio farà leccare i baffi a molti retrogamers: l’abbonamento al servizio permetterà infatti agli utenti di giocare moltissimi titoli vintage come Double Dragon o Metal Slug.
Finanziato attraverso un fortunato kickstarter, il progetto ha chiaramente l’obiettivo di far colpo su tutte quelle community di giocatori over-30 (quasi over-35!) che vogliano rivivere col minimo sforzo l’età d’oro dei cabinati: basta avere uno dei device adibiti al servizio (al momento PC, MAC, XBoxOne e dispositivi mobile), sottoscrivere l’abbonamento, creare un account e accedere a una libreria che sembra destinata a diventare sempre più corposa nel corso degli anni.
Un progetto tanto semplice quanto ambizioso per una start-up, che tuttavia è stato incoronato vincitore da una campagna di crowdfunding di successo e, soprattutto, dalla benedizione di sir Ian Livingstone (presidente onorario della vecchia e gloriosa Eidos e fondatore, con Steve Jackson e John Peake, di Games Workshop) e dell’ex CEO della divisione Europa di Sega, Miyake Kazutoshi.
Possiamo tranquillamente immaginare i motivi di questo successo: effetto nostalgia, revival anni ’80, attrazione per l’archeologia digitale… insomma, il progetto di Steve Cottam, CEO del progetto, ha fatto presa su quella che sociologicamente possiamo chiamare comunità di scopo, ovvero un gruppo di persone accomunate da un interesse o una passione in particolare (spesso anche dei fandom) e disposte, fra le altre cose, a finanziare un progetto d’interesse.
Un fenomeno interessante: la chiara dimostrazione di come una tecnologia relativamente “modaiola” e nata con altri scopi possa servire cause di diverso tipo da quelle previste e creare nuovi business. Tuttavia, a livello di cultura del videogioco e non solo, Antstream sembra poter fare molto di più.
Le culture pop, dai cinefili appassionati del film d’annata introvabili ai nerdacchioni che sbavano per le riedizioni dei Castlevania per Nintendo DS (o per Bloodstained), hanno sempre dimostrato una funzione sociale ben precisa, ovvero la conservazione della memoria di un determinato genere o medium d’intrattenimento.
Gli amanti della musica anni ’60 e ’70, per esempio, hanno fatto sì che in tutto il mondo proliferassero negozi online e fisici dedicati all’acquisto di LP, spingendo addirittura le case di produzione a rimettere in commercio alcuni prototipi di dischi e lettori o, e qui viene il nostro discorso, a sviluppare luoghi deputati alla conservazione e pubblica fruizione dei dischi, vere e proprie “discoteche” (in senso letterale).
Sappiamo tutti che, al di là della presenza di alcune realtà virtuose in grandi città come Bologna o Roma, l’esistenza di delle “biblioteche del videogioco” non siano proprio facili da realizzare: una cineteca di film d’autore avrà sempre uno zoccolo duro di fan, specie nei grandi centri, poiché legati inevitabilmente a una memoria storica che vedeva nel noleggio o nel cineforum una componente importante della vita culturale personale. Il videogioco, medium “giovane”, potrebbe non essere ancora così consolidato per permettersi un’operazione tanto diffusa e di forza.
Il successo di progetti come Antstream dimostrano perfettamente allora come lo streaming videoludico, visto con incertezza nei suoi primi passi, possa invece dare una risposta all’esigenza di diffondere alcuni titoli altrimenti introvabili ma necessari alla “cultura videoludica” di ogni gamer.
Insomma, e se servizi come Stadia o PS Now, sui quali compaiono anche delle “celebrità” del passato, divenissero le “biblioteche pubbliche del videogioco“, in grado di permettere un accesso diffuso ad alcune pietre miliari col minimo sforzo?
Immaginiamo un giocatore medio, magari giovane, sui sedici anni, e dal buon palato. Immaginiamolo muoversi con agilità fra i migliori giochi delle ultime generazioni, e in grado di apprezzare le più belle storie portate su console dai programmatori contemporanei, da Miyazaki ai Naughty Dog, e immaginiamolo affamato di farsi una cultura videoludica… pensate mai alle barriere che potrebbe trovarsi davanti? Prima fra tutte, ovviamente, la reperibilità di alcuni titoli e la difficoltà a recuperare i device.
Fermi, so cosa state pensando: gli store online e i negozi abbondano di edizioni remastered e collezioni dei capolavori del passato, anche a prezzi irrisori, quindi in teoria un giocatore medio ha molte più chance di recuperare un gioco “vecchio” rispetto a dieci anni fa.
Il punto però è un altro, e ha a che vedere con la dignità che vogliamo dare al videogioco. Usiamo brevemente il paragone con il libro, il primo “medium d’intrattenimento” diffuso capillarmente attraverso il noleggio: da molto tempo il prezzo di mercato medio di un volume è estremamente basso, grazie alla presenza delle edizioni economiche, eppure le biblioteche pubbliche o legate a enti continuano a esistere. Perché? Semplice, perché le più grandi e fornite garantiscono un accesso universale alla conoscenza col minimo sforzo economico. I servizi streaming del videogioco potrebbero in futuro avere la stessa identica funzione. Per quanto i costi siano diversi, per quanto la natura legale lo sia (al momento non esiste nessun ente pubblico che abbia l’interesse a curare il proprio servizio di gaming in streaming) e per quanto la dignità culturale dei due media sia ancora, purtroppo, lontana, il funzionamento può essere esattamente lo stesso. Lo streaming del videogioco può servire per cultura videoludica. Può servire per preservare la consapevolezza di cosa è stato il videogioco nel passato e può servire per elevare il medium a un nuovo stadio di consapevolezza (e dell’importanza di questa cosa ne abbiamo parlato qui, col nostro Graziano).
Certo, affinché ciò accada serve un ulteriore cambio di passo all’interno dell’industria del videogioco.
Nessuno si aspetta che da domani Sony o Google abbassino i prezzi dei loro serviziper un’operazione di valorizzazione culturale, sarebbe utopia.
Se però un certo processo di sensibilizzazione iniziasse a farsi strada lentamente, di anno in anno, allora probabilmente anche le major comprenderebbero che una diffusione della cultura del videogioco non può che svilupparsi anche con delle piccole concessioni a livello di accesso.
Nel periodo di massimo splendore del cinema americano del ‘900, nessun grande produttore di Hollywood si sarebbe sognato di mettere (quasi)liberamente a disposizione un proprio film. Trenta/quarant’anni dopo c’erano le videoteche e i cineforum, che alimentavano gli acquirenti del biglietto delle nuove uscite.
E il cinema, seppur indebolito, non è ancora morto. Anzi.
>>Leggi anche: L’Europa non sembra essere interessata ai servizi di streaming come Stadia o XCloud<<
This post was published on 8 Luglio 2019 16:18
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