La politica, si sa, è un argomento scottante, soprattutto in questi ultimi anni dominati da una grande incertezza e soprattutto quando si parla del modo in cui essa si relaziona con le masse. Tensioni sociali e ideologiche tornano ad affiorare in tutti i grandi paesi dell’Occidente, anche all’interno dei discorsi socio-culturali, mentre parte della critica comincia a ricercare contenuti politici nel videogioco, nella serialità televisiva (un esempio? Game of Thrones!) oltre che nel caro e “vecchio” cinema. E le software house? Come rispondono le software house?
Certo una risposta la danno alcune dichiarazioni rilasciate negli ultimi mesi da alcune software house e alcuni publishers molto importanti come, per esempio, Ubisoft, che a giugno, presentando Watch Dogs Legion, titolo che promette di portarci in una Gran Bretagna futuristica che sembra dipingere in modo critico gli scenari post-Brexit, ha tenuto a precisare che che i suoi videogiochi non vogliono essere politici.
Una dichiarazione che arrivava dopo che varie parti avevano fatto notare come molti titoli del colosso francese contengano contenuti di critica o analisi della società attuale.
Se ci pensiamo, in effetti, quelle voci non erano certo “campate per aria”: tralasciando The Division e il già citato Watch Dogs, nei quali l’elemento fantapolitico non può che portare la critica a pensare ai sottotesti ideologici di questi titoli, persino giochi come gli Assassin’s Creed e i Far Cry contengono velate allusioni a questioni politico/morali o a grandi “temi” contemporanei come l’ostilità delle masse verso il potere delle elite (tutto Assassin’s Creed utilizza con disinvoltura il tema della teoria della cospirazione, uno dei “sintomi culturali” del contrasto fra “popolo” e “vertici”) o il riemergere del fondamentalismo religioso negli U.S.A. più rurali (Far Cry 5).
Se il caso Ubisoft fa rumore, va detto che il suo tentativo di mettere le mani avanti sui contenuti politici dei suoi titoli non è stato l’unico. Nelle scorse ore infatti il direttore responsabile di Obsidian ha tenuto a dichiarare che il prossimo titolo dello studio, l’rpg The Outer Worlds, ambientato in un mondo fantascientifico dominato dalle multinazionali, non vuole essere un titolo politico o di critica al capitalismo.
In quale quadro si inseriscono queste posizioni?
Non fossimo persone in grado di capire il potenziale politico e culturale di un’opera videoludica potremmo tranquillamente affermare che pretendere di vedere un intento politico in un passatempo ricreativo potrebbe essere decisamente stucchevole o inutile, e dunque vedere nelle parole di Ubisoft e Obsidian semplice buon senso.
Per fortuna, però, noi di Player.it conosciamo il potere del videogioco di veicolare contenuti in grado di costruire riflessioni. Né possiamo ignorare come per esempio vari governi abbiano dato segnali di considerare il videogioco un’opera in grado di smuovere le coscienze (vedi il caso di Devotion).
Questo è chiaro anche solo dando una veloce letta alla lista di alcune delle serie videoludiche più importanti degli ultimi anni. Pur non essendo un gioco “politico”, Fallout mostra le conseguenze della guerra. Pur non essendo “politico”, The Witcher parla di xenofobia, razzismo e violenza. The last of us ha il chiaro obiettivo di mostrare cosa succede a una civiltà quando l’ordine costituito si sgretola (così come Days Gone). E cosa dire di praticamente tutti i giochi Rockstar, allegorie dei lati più oscuri del sogno americano?
Non troverete mai dichiarazioni degli sviluppatori di questi giochi che affermino di aver voluto realizzare i loro titoli per un atto di testimonianza politica, tuttavia, a conti fatti, vuoi perché l’utilizzo di alcuni temi è funzionale alle storie raccontate, vuoi perché la politica è in onnipresente nei discorsi pubblici, una lettura critica di questi titoli porta a considerarli “politici” con molta facilità.
Chiariamoci: chi scrive non crede che la linea giusta sia una costante lettura politica di tutto ciò che giochiamo. Esistono esempi di critica videoludica, che affondano le loro radici nella tradizione dei cultural studies, che tendono a usare chiavi di lettura “militanti” per leggere fenomeni del nostro settore che poco hanno a che vedere con questioni di rivendicazione politica.
D’altro canto, però, dichiarazioni come quelle di Ubisoft e Obsidian fanno notare quanto l’esistenza un’opinione pubblica interessata al contenuto politico dei videogiochi.
Passi il caso di Ubisoft, più esposta mediaticamente anche a causa di un soggetto più marcatamente “di attualità” (se mi fai uscire un titolo ambientato in una Londra militarizzata nel pieno del caos post-Brexit è logico che qualche speculazione te le attiri, no?), ma quello di Obsidian è indice di un fenomeno interessante nel quale il pubblico, letta la sinossi di un titolo, manifesta un’aspettativa di “impegno” di un videogioco che solo pochi anni fa poteva essere anche non considerata.
La verità è che l’opinione pubblica è cambiata, così come il ruolo del videogioco. Solo nel 2015, all’uscita di The Witcher 3, la stampa si meravigliava dei contenuti politici insidi in un gioco. Oggi, invece, sembrano anticipare e chiedere, mentre le software house tendono a mantenere calmi gli animi.
E questo dovrebbe farci riflettere.
This post was published on 5 Luglio 2019 15:32
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