Il caso Devotion, il videogioco indipendente taiwanese ritirato dagli store digitali (Steam compreso) per motivi politici, negli scorsi mesi aveva scosso il mondo dell’industria videoludica per la durezza dell’intervento repressivo, rendendo di nuovo attualissimo il tema della censura politica del videogioco nei regimi totalitari. La vicenda, però, sembra non essersi ancora conclusa: è di ieri la notizia che Indievent, publisher cinese di Devotion, ha perso magicamente la licenza d’affari. Strano, vero?
La storia di Devotion era stata già toccata da Player lo scorso marzo, attraverso un lungo speciale nel quale era stata sviscerata la genesi e lo sviluppo di un titolo fortemente politico e ricco di spunti di riflessione.
Per riassumere, il titolo indie è un horror psicologico dall’atmosfera inquietante nel quale uno sceneggiatore in crisi artistica si ritrova a dover ritrovare moglie e figlia scomparse, bloccato all’interno del suo appartamento. Unico modo per riuscire nell’impresa sarà quello di compiere una serie di “atti di fede” volti a far tornare la nostra famiglia verso un oscuro culto.
Un gioco cupo, con una forte componente introspettiva e con lo spiccato obiettivo di far riflettere su un concetto filosofico: quanto siamo disposti a sacrificare noi stessi e la nostra morale per ottenere qualcosa? Come il protagonista del gioco arriva a essere devoto al culto pur di riavere la sua famiglia, può un uomo abbandonarsi completamente a una religione o a un’ideologia politica fino a diventarne succube?
Insomma, Devotion non tanto parla di demoni, infestazioni e misteri, ma della condizione umana e del suo rapporto col potere.
Si tratta di un concetto forte, un prodotto portato a compimento in un contesto culturale, quello di una nazione resasi indipendente dalla Cina ma comunque ancora sotto una sua forte influenza culturale e politica.
Molti critici non hanno potuto fare a meno di vedere nella sotterranea critica al totalitarismo di Devotion una critica al regime cinese e a molti suoi “dogmi”.
La verità non sembra essere distante: a oggi non solo il gioco è sparito da Steam, ma qualcuno sembra aver perso il lavoro per aver voluto supportare il titolo come localizzatore.
Secondo Rock, Paper, Shotgun, Indievent, azienda distributrice del gioco in territorio cinese, sarebbe stata colpita dalla revoca della licenza nonostante abbia preso le distanze dalla “morale” del gioco incriminato. Per la cronaca, ufficialmente il casus belli della repressione di Devotion non sarebbe tanto il suo interessante sottotesto politico, capace di lavorare in profondità mediante la metafora, quanto a un easter egg nel quale potremmo imbatterci nel corso dell’avventura.
Sembra infatti che i ragazzi di Red Candle, sviluppatori di Devotion, abbiano inserito nel gioco un accostamento (contenuto oltretutto all’interno di un gioco di parole contenuto all’interno di un documento che il giocatore può trovare in game) fra Xi Jinping (segretario del Partito Comunista cinese) e Winnie the Pooh, spesso ironicamente raffrontato con il politico cinese a causa del suo aspetto.
Sì, ragazzi, sembra che le cose stiano proprio così: il governo cinese non ha preso bene l’ironia ed è ricorso alla censura.
Già.
Il caso di Indievent e della sua tristissima fine è, ovviante, qualcosa di incredibile e incommentabile, soprattutto per le sue caratteristiche di censura repressiva spicciola (in pratica in succo è “Hai distribuito un giochino che ironizza sul segretario del partito? Via, per te è finita!”). Non riusciamo a immaginare il grado di danneggiamento e di frustrazione che un provvedimento del genere possa generare in un’azienda, e ci sembra un provvedimento tanto più folle se pensiamo che è inserito in un contesto politico globalizzato in cui l’informazione viaggia ormai libera nella rete.
Dovremmo essere abbastanza meravigliati, la verità è questa: solo un paio di settimane il governo russo ha parlato di come Metal Gear Solid sarebbe un’opera partorita dallo spionaggio statuniteste per danneggiare l’immagine della fu Unione Sovietica.
Sono solo due esempi, cari gamers, di una lunga lista di censure che non si limitano ad attaccare un’opera d’arte per i suoi contenuti “morali”, ma tentano di reprimere il dissenso politico o, ancor peggio, di limitare la libertà espressiva di alcuni creativi. Sapevate, per esempio, che nella sua incarnazione saudita Injustice-Gods among us ha visto un repentino cambio di titolo in Mighties among us, per non entrare in contrasto con la sensibilità dei cittadini del paese islamico per la presenza del termine “dei” nel titolo? E che dire del ban del primo Mass Effect da Singapore per la possibilità di far avere rapporti omosessuali al proprio alter-ego digitale?
Siamo certi che la lista sia molto lunga, ma già questi esempi ci ricordano come a volte sia necessario un piccolo sforzo per ricordarci di essere nel 2019 e non negli anni ’50…
This post was published on 3 Luglio 2019 10:44
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