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Cyberpunk 2077 non avrà un sistema morale, e va bene così

Non è un caso che Cyberpunk 2077, quello che sembra essere il prossimo capolavoro annunciato di CD Projekt RED, stia attirando un sacco di attenzioni su di sé. Ogni nuova notizia ed ogni nuovo dettaglio al riguardo del titolo è consumato ed assimilato istantaneamente dall’enorme massa di fan in trepidante attesa per il 16 Aprile 2020 proprio perché sembra essere una sorta di “Messia” dei giochi di ruolo.

L’ultima news riguardo al futuro “re” degli RPG può sembrare all’apparenza parecchio standard, ma in verità nasconde dietro di sé una volontà di voler sconvolgere il videogioco di ruolo contemporaneo, portandolo più vicino alla libertà e alla complessità del suo genitore cartaceo: la notizia è quella di una completa assenza di un sistema morale e scelte morali, ed è la cosa più bella che ci si poteva aspettare da Cyberpunk 2077.

 

The Path of the Witcher…ed anche del Rockerboy

 

 

Mateusz Tomaszkiewicz, quest director di Cyberpunk 2077, è stato giustamente preso all’assalto da orde di giornalisti e fan con continue domande durante l’E3 Losangelina, conclusasi giusto una settimana fa. Tra le tante, c’è stata ovviamente una direttamente correlata alla possibilità di giocare il titolo senza uccidere alcun NPC, ovvero se dietro a questa meccanica ci fosse una qualche sorta di sistema di moralità o scelte morali/Karmiche, come abbiamo visto in moltissimi altri titoli in passato.

 

Non abbiamo un vero e proprio Sistema Morale. Tuttavia, per completare il gioco senza uccidere nessuno dovrete essere parecchio abili nello stealth. Dovrete investire in abilità che vi permetteranno di essere più furtivi, usare armi che incapacitano i nemici anziché ucciderli, e soprattutto dovrete compiere quelle determinate scelte che vi impediranno di far fuori in generale le persone durante tutta la campagna. Ma quelle scelte non sono dettate da un sistema. 

 

Insomma, c’era da aspettarsi una risposta simile dalla software house che ha fatto dell’ambiguità morale e del capovolgimento dell’etica il marchio di fabbrica della loro IP più famosa, The Witcher. Le storie di Geralt, sia a livello letterario che a livello videoludico, sono pregne di riflessioni su cosa sia effettivamente giusto e sbagliato e su chi siano i veri mostri, se gli esseri abominevoli che infestano le terre del Continente o i sovrani senza scrupoli che governano le vite degli uomini.

 

Opzioni di un certo livello

 

A livello di gameplay, infatti, The Witcher 1, 2 e 3 non hanno mai utilizzato un sistema morale che indicasse l’allineamento karmico dello Strigo (e consecutivamente del Giocatore), ma hanno sempre optato a creare diverse situazioni e storylines che si evolvessero seguendo le scelte attuate durante la campagna, che siano esse solamente di flavour/superficiali come decidere di farsi una bevuta coi propri compagni o qualcosa di molto più serio, come aiutare la propria figlia adottiva a vendicare la morte di una persona cara.

A molti una scelta simile può sembrare banale o comunque non importante, ma basti pensare che il primo The Witcher uscì nell’ormai lontano 2008, in una generazione videoludica in cui nella maggior parte dei giochi di ruolo…beh, diciamo che lì la libertà di gioco era parecchio, ma parecchio limitata. 

 

Non tutto è Bianco o Nero. Però nei videogiochi era solo Blu e Rosso.

 

 

Dopo la grande era dei C-RPG come Baldur’s Gate e Planescape: Torment (che utilizzavano il sistema d’allineamento morale di D&D), gli RPG hanno iniziato a puntare molto di più su di un sistema morale binario di scelte generalmente cattive o buone, in parte per limitare l’eccessiva difficoltà di sviluppo dovuta alle enormi possibilità e scenari da realizzare con le costose tecnologie di nuova generazione.

Se da una parte quindi abbiamo avuto titoli come Fallout, Dragon Age: Origin e Dishonored, con un sistema morale presente ma che non limitava troppo le opzioni di dialogo e le azioni disponibili, dall’altra abbiamo avuto l’enorme successo di titoli quali Mass Effect, Infamous e Fable che hanno puntato tutto proprio sull’evidente dicotomia tra Bene e Male, con dei protagonisti che si evolvevano e mutavano il proprio aspetto e potere a seconda del percorso intrapreso.

 

 

Il grande riverbero e popolarità che questo tipo di narrazione ha avuto nel medium videoludico sono stati tali che durante la Settima Generazione molti, moltissimi titoli che non potevano ritenersi propriamente degli RPG iniziarono ad inserire questa tipologia di scelte e sistema morale: Overlord, Spider-Man: Web of Shadows, Dante’s Inferno, Catherine, Epic Mickey, Bioshock

Molte volte questa dicotomia veniva e viene utilizzata spesso senza pensarci e senza che abbia ripercussioni vere e proprie sulla run di gioco, andando ad esempio ad influenzare unicamente il finale o a diversificare minimamente le tipologie di attacchi/meccaniche a disposizione del giocatore. Come se non bastasse mantenere una sorta di equilibrio morale, cercando di non tendere troppo da un lato o dall’altro, penalizza tantissimo la crescita e lo sviluppo del personaggio dal punto di vista del level up. Ciò ha ovviamente afflitto la libertà d’azione di questi videogiochi, rendendoli sterili da un punto di vista della giocabilità o del roleplaying.

 

Il limite nel futuro? Saranno le stelle…e la nostra stessa moralità

 

 

Il trend è però cambiato di gran lunga nel corso di questa generazione, anche e soprattutto grazie ai numerosi titoli indie che sono riusciti a scuotere la monotonia morale del passato.

Abbiamo ad esempio Undertale, che oltre a inserire il concetto di moralità all’interno della sua storia senza un qualche tipo di barra o misurazione, sfrutta lo stesso concetto del grinding e degli incontri casuali coi mob per far decidere al giocatore se intraprendere le tanto famose Genocide o Pacifist Runs, ognuna con difficoltà, meccaniche e soprattutto eventi totalmente diversi fra loro.

Vi sono poi titoli come Darkest Dungeon che, come spiegato nell’ottimo video di Game Maker’s Toolkit, offre al giocatore la possibilità di abusare e sfruttare i propri avventurieri per ottenere loot e risorse maggiori, per poi sbarazzarsene ed assumerne di nuovi quando raggiungono il loro punto critico di sanità mentale esattamente come farebbe al giorno d’oggi un CEO di una multinazionale. Anche le decisioni intrapresi in giochi ad ampio respiro come gli RTS gestionali della Paradox o Rimworld rientrano in questa categoria di scelte morali non binarie.

 

Un esempio di scelta morale molto importante in Life is Strange. Because your choice (and breakfast) matters

 

Per non parlare poi del grandissimo ritorno in pompa magna dei C-RPG e Strategici Tattici come i divini (scusate il gioco di parole) Divinity: Original Sin 1&2 e gli XCOM: Enemy Unknown e Fire Emblem, che spesso ci mettono davanti a delle vere e proprie scelte etiche nel bel mezzo dei combattimenti senza che ce ne rendiamo conto e senza penalizzare un approccio pragmatico, privo di morale o semplicemente adattabile alla situazione.

La scelta di Cyberpunk 2077 di abolire il sistema morale che per tanto tempo ha ammorbato il medium videoludico non è solo la prosecuzione del lavoro svolto su The Witcher, ma un vero e proprio manifesto che afferma che ora come ora il videogioco non solo può, ma deve regalarci la libertà più assoluta di essere ciò che vogliamo e fare ciò che reputiamo più giusto, senza che un indicatore ci dica che siamo stati buoni o cattivi e ci dia una ricompensa al riguardo.

 

Se il titolo avrà successo, questa nozione verrà appresa da molte altre più persone e sviluppatori, che punteranno anch’essi su di un mondo videoludico privo di una dicotomia così asettica e statica. Perché non si possono quantificare il bene assoluto ed il male assoluto, se non esistono. Perché esistono solo le nostre azioni, e le conseguenze legate ad esse.

 

>>Leggi pure Tutto quello che c’è da sapere su cyberpunk 2077<<

This post was published on 24 Giugno 2019 10:00

Riccardo Liberati

Classe 1997, cresciuto immerso dai libri, cartoni e videogiochi, ho sempre desiderato e provato fin dalla tenera età a creare storie fantasiose che rendessero un po' più brillante la mia vita monotona. Ho trascorso l'infanzia in solitaria, giocando a quanti più titoli possibili, spaziando dai vecchi J-RPG di Square Enix fino ai più violenti sparatutto su PC, non disdegnando nel frattempo RTS, platform e giochi di corse automobilistiche. Alle superiori riesco finalmente ad aprirmi e a trovare dei compagni con i miei stessi gusti e sogni, e capisco che non amo tanto i videogiochi, quanto la cultura ed i messaggi dietro di essi, gli stessi che ho sempre trovato nei libri, film e qualsiasi altro tipo di medium artistico. Inizio a lottare per questo concetto scrivendo all'impazzata ed accrescendo la mia cultura ancor di più, sia attraverso la scuola che attraverso gli incontri e le persone d'ogni giorno. Questo bel sogno finisce con l'arrivo all'università, periodo peggio di qualsiasi film horror che abbia mai visto e che mi costringe a mollare tutto e rifugiarmi nella mia Fortezza della Solitudine per tre anni, perdendo interesse e linfa vitale per qualsiasi cosa. Nel frattempo ho lavorato in numerosi settori, dall'aiuto vendita al libraio al tutor privato, e nel 2018 inizio a scrivere per Player.it, il mio primo incarico ufficiale come giornalista videoludico e che mi ha formato moltissimo sia nell'ambito dei videogiochi che in quello della scrittura basilare. Oggi ho ripreso a studiare grazie alla scelta repentina ed irrazionale di iscrivermi alla Scuola Holden di Torino, luogo da cui vi scrivo, abbandonando casa per la prima volta ed il luogo natale di ogni mio piccolo successo e grande fallimento. La mia speranza? Quella di poter riuscire a trovare una strada ben delineata, facendo quello che mi piace fare senza dovermi sottomettere a nessuno

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