L’annuncio di Elden Ring, nuovo progetto From Software tirato fuori dal cilindro a pochi mesi da Sekiro e presentato ufficialmente all’appena terminato E3, ha suscitato reazioni incuriosite, non solo perché rappresenta un nuovo titolo di uno studio di sviluppo che è riuscito a imporsi nell’ultimo decennio, ma soprattutto per il coinvolgimento nel progetto di George R.R. Martin. Secondo ciò che sappiamo dalle parole di Hidekata Miyazaki, l’autore de Le cronache del ghiaccio e del fuoco lavorerà sul versante dell’ambientazione del nuovo progetto, delineando la mitologia e il mondo in cui il giocatore dovrà muoversi. Una notizia che, oltre a scatenare ironie a non finire sulla probabile alta mortalità e crudeltà di ER, ha confermato una tendenza sempre più presente nell’industria videoludica: la ricerca di sempre maggiore inclusione di scrittori, meglio ancora se affermati, per la cura della narrativa di molti titoli.
Talenti destinati a incrociarsi
Quella del legame fra modelli letterari e videogiochi è una storia lunghissima: la lista di titoli di successo tratti da romanzi e racconti è sterminata e continua ad allungarsi ogni anno. Basterebbe (tentare di) ragionare sui titoli tratti da Tolkien o Conan Doyle per comprendere come la letteratura abbia influito ancor più del cinema o della televisione sulla nascita di migliaia di opere videoludiche.
Quello di cui stiamo parlando qui, però, è un fenomeno ben diverso e più sottile, a parere di chi scrive più affascinante.
Si tratta del fatto di come uno scrittore possa essere in un certo senso “reclutato” come consulente creativo per curare il lato creativo di un titolo altamente immersivo come un rpg (nel caso di Elden Ring) o comunque un gioco che faccia della storia e dell’atmosfera il suo punto focale.
Questo può accadere per più motivi, spesso concomitanti.
Il primo, banale, può essere semplicemente la necessità di dare al proprio gioco un “padre nobile”, spesso già conosciuto da un pubblico attiguo a quello che si vorrebbe conquistare o, ancor meglio, coincidente con lo stesso. Insomma: se sono From Software e voglio allargare ancor di più il mio bacino d’utenza del mio prossimo titolo dark-fantasy quale modo migliore del coinvolgimento del padre di Game of Thrones, considerato da molti ormai “il” fantasy per eccellenza?
Un’operazione basata senza dubbio su fattori di immagine e di marketing, è ovvio.
Se tuttavia questa può sembrare una motivazione poco nobile, la seconda di cui parleremo potrebbe aprire scenari ancora più problematici sotto il profilo artistico.
Curare il worldbuilding: sempre più una “professione”
C’è un fatto rilevante da tener presente: oggi prodotti come le serie televisive o i videogiochi sulla cresta dell’onda costruiscono buona parte del loro successo sulla capacità di coinvolgimento di vere e proprie community e sulla loro cura e sulla costruzione di ambientazioni e storie che portino a solide fanbase capaci di supportare i brand anche e soprattutto economicamente.
Seguire Game of Thrones non significa solo appassionarsi alla trama, ma soprattutto a un mondo in continuo sviluppo, a una fazione preferita, a dei personaggi che si muovono con dinamiche molto particolari e peculiari. Per quanto a noi sembri secondario, è (anche) la cura del dettaglio di questi aspetti a decretare il successo o l’insuccesso di una storia e, quindi, di un prodotto. In quest’ambito, quel che potremmo finire come supervisore creativo diviene sempre più importante. Quando non è Martin (che di sicuro non ha bisogno di referenze per fare quello che fa), a questo tipo di consulente vengono richieste capacità quali conoscenze storiche su determinati periodi e sulle loro dinamiche sociali, nonché (ovviamente) elementi di drammaturgia volti a far funzionare la trama, meglio se certificate da un curriculum vitae e da lauree in scuole di sceneggiatura (realtà sempre più diffuse, specie nei paesi anglosassoni).
Insomma, il creatore di mondi diventa sempre più una figura ricercata in ambito creativo.
Da autore a ingranaggio?
Ci permettiamo di concludere con una piccola riflessione un po’ romantica e pessimista.
Lasciamo perdere Martin, lasciamo perdere la collaborazione, purtroppo naufragata, fra il mangaka Junji Ito e il duo Del Toro/Kojima per Silent Hills (ferita che brucia e brucerà per anni) e tutti i grandi nomi coinvolti in operazioni come quelle descritte di sopra.
In un mondo in cui la letteratura di genere sopravvive per lo più grazie alle nicchie e l’intrattenimento videoludico e cinematografico puntano a “inglobare” i creatori di mondi nei meccanismi di produzione di kolossal, possiamo ipotizzare uno scenario in cui lo scrittore viene definito solo e soltanto un “consulente creativo”e ridotto a ingranaggio di operazioni più grandi loro?
La situazione è, come al solito, frastagliata e ricca di sfumature.
Anzitutto è auspicabile che l’opinione pubblica sviluppi una più alta considerazione del ruolo dello sceneggiatore anche in produzioni corali e di massa, cosa non scontata in un contesto industriale e ancora culturalmente molto immatura sotto questo punto di vista.
Più in generale, però, il mestiere dello sceneggiatore/”worldbuilder” dovrebbe essere elevato al rango di scrittore a tutto tondo, facendo sì che una figura professionale di questo tipo possa mettere con orgoglio nel curriculum tanto un ruolo così “meccanico” quanto quello di autore di romanzi.
Gettando le premesse per ulteriori trasformazioni nell’industria.