L’arte non paga le bollette. Lo sapeva bene Fumito Ueda, padre di capolavori senza tempo come ICO, Shadow of the Colossus e il recente The Last Guardian, quando nel lontano 1995 decise di dire addio alla vita da artista e dare il via alla propria leggendaria carriera all’interno dell’industria videoludica.
Sarò nell’industria dei videogiochi solo per qualche anno, dice Ueda in una intervista durante il Reboot Develop in Croazia. Il neolaureato Ueda dalla Osaka University of Arts aveva infatti ben altro in mente: vedeva i videogiochi solamente come un piacere infantile e l’arte come la sua unica vera strada. Purtroppo (o per fortuna, per noi e il mondo dei videogiochi) bastarono un paio di anni al giovane futuro leader del Team ICO per comprendere questo non sarebbe stato possibile e cercare un impiego come animatore per studio WARP capitanato da Keiji Eno.
Continua, Ueda, rivelando come pensasse che ogni videogioco sarebbe stato il proprio ultimo gioco, portandolo quindi ad effettuare scelte più ardite e sperimentali rispetto ad altri suoi colleghi. Questa sua malinconia, nonché la sua vena artistica e volontà di proseguire la carriera di artista anziché sottomettersi alla logica del mercato videoludico appare chiara se andiamo ad analizzare il suo primo capolavoro: ICO.
Rilasciato nel lontano 2001, ICO è forse il gioco che meglio incarna una concezione diversa del medium, innalzandolo da mero intrattenimento ad una vera e propria forma d’arte. L’avventura di ICO e Yorda è al contempo rivoluzionaria, sperimentale e studiata in ogni minimo dettaglio: giochi di luce e chiaroscuri degni di un grande regista, uno stile minimale ed essenziale, povero di colori ma non per questo meno vivo e ricco di personalità; interazioni ridotte all’osso e dialoghi al minimo storico, il tutto coadiuvato da una colonna sonora che fa della propria assenza il proprio punto di forza, offrendo enorme spazio al silenzio per rimarcare in maniera più efficace la propria importanza. Tutto questo unito per raccontare una storia in un modo che nessuno aveva mai osato fino ad ora.
Il tocco di Ueda e la sua volontà di porsi innanzitutto come artista piuttosto che come semplice game developer si palesa anche nel suo secondo titolo per PlayStation 2, Shadow of The Colossus, destinato anch’esso a entrare negli annali ed essere ricordato tra i grandi della storia dei videogiochi.
L’approccio minimalista e l’importanza dell’estetica piuttosto che della grafica sono il fulcro anche di questa seconda opera, risultando allo stesso tempo legata ad ICO da un filo conduttore ma andandone a modificare alcuni aspetti fondamentali. Basta escort mission: non saremo più legati al nostro amore, né saremo più rinchiusi entro le mure di un castello. In groppa al nostro puledro dovremo viaggiare nell’immensità di una mappa quasi completamente priva di qualunque interagibilità alla ricerca dei vari colossi, sconfiggerli per poi inesorabilmente riprendere la propria caccia/avventura per scovare il prossimo.
Anche qui la musica svolge un ruolo fondamentale nell’arricchire l’avventura, anche se cede in parte ad un pomposità più classica, abbandonando silenzi e pause. Se è vero come abbiamo accennato che ci troviamo in una area aperta, il tempo spesso a vagare senza meta contribuirà alla sensazione di aver quasi fermato il tempo, avvicinandoci quindi al ritmo lento e riflessivo di ICO, pur senza seguire un binario. La vera rivoluzione del titolo, tuttavia, è costituita dai colossi: ci distanziamo completamente dalla concezione zeldesca del dungeon con il boss alla fine ma esso stesso diventa allo stesso tempo temibile avversario e fonte di enigmi da risolvere per proseguire nell’avventura. Ogni colosso sarà diverso tra loro e compito del giocatore sarà osservarlo, conoscerlo, scoprire il suo punto debole e affrontarlo quindi nel modo corretto. I puzzle, parte integrante anche di ICO, riappaiono dunque in una forma completamente inedita e unica, rendendo Shadow of the Colossus uno dei pinnacoli del videogioco come forma d’arte.
Il trittico si è chiuso recentemente con il travagliato sviluppo e uscita di The Last Guardian che per quanto sia sicuramente un prodotto qualitativamente alto ha perso l’unicità delle due opere precedenti, andandosi ad incatenare nelle logiche di ICO piuttosto che osare, sperimentare e rompere gli schemi.
Spesso ci troviamo di fronte ad opere dal valore artistico notevole che, tuttavia, non sono state in grado di permanere nel tempo e la cui presenza risulta totalmente o quasi dissolta. Non è questo il caso dei giochi di Ueda, la cui influenza nel panorama dei videogiochi indipendenti è forte tutt’oggi. Thatgamecompany con il suo Journey è sicuramente uno degli esempi più lampanti. Il vagare all’interno di un deserto sconfinato tra la pace dei sensi, accompagnando o venendo accompagnati da sconosciuti senza la possibilità di scambiarsi alcuna parola è il connubio della ricerca estetica di ICO e Shadow of the Colossus e forse, addirittura, la sua evoluzione. Non servono parole per creare una storia ma viverla assieme a qualcuno è sicuramente un tocco di genio che per motivi tecnici non poteva essere presente nelle opere di Ueda.
Journey è forse il rappresentante più celebre di questo filone di giochi artsy, ma l’influenza di ICO è forte in moltissimi titoli indipendenti. Pensiamo ad esempio al recente RIME, dove all’interno della nostra avventura saremmo accompagnati da una astuta volpe, tra colori pastellati e atmosfere sognanti. Non voglio sbilanciarmi con la parola plagio ma quest’ultimo gioco seppur godibile va a pescare fin troppo dall’opera originale, lasciando un po’ di amaro in bocca e al contempo riaccendendo la passione e l’interesse per essa. A volte l’influenza, tuttavia, può essere più velata e da riscontrare nella ricerca artistica piuttosto che nella totalità del gioco, come nel caso dei puzzle games Monument Valley e quello di prossima uscita Etherborn, di cui abbiamo scritto recentemente una anteprima.
Più difficile imbatterci in giochi più ispirati a Shadow of the Colossus, d’altro canto, almeno nel panorama indipendente. Ci troviamo di fronte ad una opera grandiosa decisamente più complessa da emulare, i cui lasciti sono però rintracciabili sicuramente nella serie della From Software, Dark Souls, nel suo modo di utilizzare grandi spazi e silenzi in maniera non lineare, nonché nel far scontare il giocatore con mastodontici nemici che richiedono uno studio e una attenzione molto più accurata rispetto alle quasi mindless spadate di Devil May Cry, per citarne uno.
Riallacciandoci all’inizio della riflessione, cerchiamo di tenere in mente che siamo stati ad un passo dal non avere nulla di tutto questo. Un ragazzo, un artista entrato nell’industria videoludica per necessità è finito per diventarne uno degli esponenti più progressisti e lungimiranti, una storia unica come poche.
This post was published on 12 Aprile 2019 16:43
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