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Pubblicato in: News

Caro videogioco, quanto mi costi?

Articolo a cura di Samuele Zaboi

La questione inerente il costo dei videogiochi è da sempre un argomento spinoso su cui si è discusso a lungo e di cui si parlerà ancora molto. L’arrivo delle nuove generazioni di console ha portato con sé un conseguente innalzamento del prezzo dei videogiochi che ora, per PlayStation 4 e Xbox One, si attestano (in maniera approssimativa e senza tenere conto di offerte e promozioni) attorno ai 70€.
L’universo PC può essere incluso in questo argomento solo marginalmente, dal momento che le edizioni retail e fisiche per questo mercato sono praticamente sparite, in favore di una distribuzione digitale che, grazie a Steam su tutti, ha conosciuto una popolarità senza pari e ben lontana dalla controparte console.


È giustificato il costo di 70€ per un gioco tripla A? Non siamo certo noi a dover dare una risposta ma è bene considerare che investendo quella cifra si garantiscono ore e ore di intrattenimento, frutto del lavoro di un team più o meno vasto di persone che, naturalmente, deve rientrare nei costi di produzione e ottenere profitto per il proprio lavoro.
Fin qui, volendo, non ci sarebbe nulla da obiettare o da sindacare ma, si sa, quando si intravede la possibilità di guadagno, ci fionda all’istante, con la stessa reazione che un predatore ha nel sentire l’odore del sangue. Per questo motivo publisher e sviluppatori hanno dato il via alla “scomoda” moda dei DLC. Perché scomoda? Perché ci sono espansioni ed espansioni. Un conto è poter accedere, pagando, a un contenuto aggiuntivo pubblicato mesi dopo l’uscita del gioco offrendo ore e ore di gameplay supplementari mentre diverso è sborsare dei soldi (che si vanno ad aggiungere ai 70€ citati poco sopra, giusto per essere chiari) a poche settimane (se non giorni) dalla release, magari per ottenere solo contenuti come costumi o skin alternative. È evidente e lampante che in una situazione del genere il giocatore si senta parzialmente raggirato, trovando poco giustificabile una nuova aggiunta, a pagamento, in così poco tempo.
Per fortuna però, ci sentiamo di sbilanciarci un po’, la situazione da questo punto di vista sembra essere in via di cambiamento. Saranno le forti e continue proteste dei giocatori, sarà l’apertura a nuove politiche economiche (di cui parleremo a breve, ahinoi), sarà una mano sulla coscienza di publisher e produttori (e qui ci crediamo ben poco) ma sempre più di frequente è possibile imbattersi in DLC ora gratuiti fino, addirittura, a Season Pass completamente free e senza costi. Inutile negare come questa politica non possa che rendere felici gli utenti che in questo modo vedono fruttare maggiormente l’investimento fatto all’acquisto del gioco giustificando così la cifra spesa.

Ma, perché c’è sempre un ma, il panorama videoludico non è tutto così rose e fiori come si potrebbe pensare. Prendendo in prestito una politica attiva da diverso tempo nel mondo mobile, anche nell’universo dei videogiochi sono sbarcate in grande stile le microtransazioni, elementi considerati dalla grande maggioranza dell’utenza come il “nuovo male”.
Quanto successo di recente con Star Wars Battlefront 2 è solo l’ultimo esempio, in ordine cronologico, che ha risollevato il polverone e lo spinoso argomento riportando in luce un argomento che in pratica è sempre rimasto latente e mai morto. Il fatto che Electronic Arts, in seguito alle polemiche emerse con il gioco circa l’obbligo celato di mettere nuovamente mano al portafoglio per sbloccare nuovi contenuti in-game, abbia deciso di rimuovere dal titolo le microtransazioni appare essere in realtà solo uno specchietto per le allodole che non cancella in alcun modo lo spinoso argomento.
Forse, dopo quanto successo con Star Wars Battlefront 2, sviluppatori e publisher saranno più attenti e molto più scrupolosi prima di inserire nei loro giochi questi contenuti in-game a pagamento, per evitare una rivolta dell’utenza. L’industria videoludica, sia chiaro come questo articolo miri a trattare una panoramica generale (siamo consapevoli del fatto che esistono studi del tutto estranei a questi argomenti), sembra per certi versi ignorare quello che è il suo obiettivo: fare felici dei giocatori che sono disposti anche a pagare per accedere a contenuti e garantirsi ore di divertimento. L’attenzione talvolta sembra essere mirata solamente verso il guadagno, ignorando completamente e deliberatamente la qualità dell’offerta, del gameplay e del prodotto nel suo complesso.


Noi speriamo che si possano trovare delle soluzioni a questa situazione, forse raggiungendo una sorta di compromesso. Recentemente abbiamo avuto l’occasione di intervistare Curtel Games, sviluppatori di The Ballad Singer, e il creatore del gioco Riccardo Bandera ha lanciato una provocazione: perché non pubblicare due versioni di un titolo, una “base” e una invece già comprensiva dei contenuti aggiuntivi? Questa è sicuramente una possibile via da seguire ma la verità di fondo è che la decisione finale resta in mano solo ai giocatori stessi: decidere di non acquistare un gioco oppure di non dare adito a queste politiche mettendo nuovamente mano al portafoglio è la miglior risposta che si possa mai dare.
Fino a quando utenti continueranno a spendere per microtransazioni e contenuti in-game, sviluppatori e publisher si sentiranno a loro modo giustificati nel poterli inserire all’interno dei loro prodotti.
Non sappiamo quale sarà il futuro dell’industria videoludica e siamo ben lungi dall’azzardare una previsione in tal senso ma la speranza è che qualcosa di positivo si stia muovendo, che i giocatori riescano a prendere in mano la situazione in quanto noi siamo la linfa vitale e il cuore pulsante di questa azienda.

This post was published on 29 Novembre 2017 7:24

Redazione Player.it

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