Quando ci si ritrova a dover intervistare qualcuno, c’è sempre l’incertezza del non sapere bene chi ci si troverà di fronte: le domande potrebbero non bastare, o rivelarsi troppo poche, le risposte potrebbero essere monosillabiche e l’intervistato poco incline ad approfondire il discorso. Oppure può accadere l’esatto contrario, come con Naoki Yoshida, Hiroshi Minagawa e Michael-Christopher Koji Fox, rispettivamente produttore, direttore artistico e direttore della localizzazione di Final Fantasy XVI: una lunga chiacchierata che per noi sarebbe potuta non finire mai e ci ha mostrato uno scorcio di quello che è stato il processo produttivo del gioco, oltre a raccontarci una vera e propria novità per quanto riguarda l’intera serie di per sé.
Partiamo da quest’ultima. Lo sviluppo e la storia di Final Fantasy XVI differiscono in toto dai capitoli passati: se guardate indietro, potete bene o male vedere lo stesso pattern, ovvero la stesura della sceneggiatura in giapponese alla quale seguono motion capture e doppiaggio per passare, poi, alla localizzazione nelle altre lingue. Le fondamenta sono dunque giapponesi al 100%. Final Fantasy XVI non ha seguito questo percorso. Come spiega Koji-Fox, il direttore creativo Kazutoyo Maehiro ha scritto la prima bozza della sceneggiatura, dall’inizio alla fine, basandosi sul concept che il team ha stabilito (di cui parleremo più avanti), focalizzandosi sul tipo di storia da raccontare e sui personaggi che ne avrebbero fatto parte.
Niente di strano, direte voi, ed è qua che arriva la vera differenza: fin dal principio è stato stabilito che con Final Fantasy XVI si sarebbero registrati il doppiaggio, la motion capture e le espressioni partendo prima dall’inglese, perché avrebbe meglio restituito la sensazione alla Game of Thrones che il team ricercava. Si tratta di una scelta inedita per un titolo principale della serie.
Il primo passo perciò è stato, per il team di localizzazione gestito da Koji-Fox, prendere la sceneggiatura giapponese, localizzarla e successivamente incontrarsi più volte con Maehiro per discutere ogni singola frase così da adattarla all’approccio occidentale: che fosse un dialogo, un modo di essere scritto, pronunciato, o anche solo un personaggio da far entrare in scena per evitare che uno solo parlasse troppo trasformando tutto in un monologo, ogni dettaglio è stato analizzato e rielaborato per farlo sentire più naturale in relazione alle sensazioni (quelle, appunto, high fantasy) che il team voleva trasmettere. Per esempio, il modo di conversare in giapponese e inglese è molto diverso, motivo per cui il team si è confrontato spesso con Maehiro per fargli comprendere l’approccio occidentale rispetto a quello orientale.
Ricevuti i feedback, Maehiro ha lavorato nuovamente alla sceneggiatura giapponese per avvicinarla di più allo stile desiderato. Si è trattato quindi di un processo giapponese-inglese-giapponese, cui sono seguiti la motion capture (sempre basata sull’inglese, che precisiamo essere britannico) e il doppiaggio che, indovinate un po’, è quello Inglese, espressioni comprese.
Finito tutto questo, lo hanno implementato in gioco così da avere il filmato completo e hanno poi registrato il doppiaggio giapponese, osservando le registrazioni inglesi e adattando di conseguenza toni, modi ed espressioni. Un costante avanti e indietro tra le due lingue, che ha richiesto numerosi piccoli cambiamenti qui e lì in un processo collaborativo unico per la serie.
L’origine di FFXVI dunque non è giapponese né inglese: è una commistione delle due, per un progetto unico che, soprattutto ai giocatori familiari con entrambe le lingue, potrebbe offrire un ottimo spaccato del processo produttivo e come i due approcci differiscono l’uno dall’altro pur partendo da una matrice condivisa.
L’obiettivo era raggiungere un risultato che si percepisse naturale e con una sfumatura occidentale di fondo. La domanda che sorge spontanea a questo punto è: in quale lingua occorre giocare? Koji-Fox ha risposto che non ce n’è una giusta, ognuna ha le proprie sfumature ed entrambe sono egualmente importanti. Considerato tuttavia che Final Fantasy XVI ha tantissimo da offrire in termini di New Game +, al punto da essere considerato da Yoshida un gioco completamente diverso e addirittura il vero Final Fantasy XVI, l’occasione per giocarlo in entrambe le lingue di sicuro non vi manca.
L’abbiamo accennato più di una volta nel paragrafo precedente, promettendovi di parlarvene, ed è ora di farlo. Final Fantasy XVI mostra un chiaro contesto high fantasy ma quali sono stati di preciso le fonti di ispirazione? A questa domanda risponde Yoshida, spiegando che data l’ambientazione scelta per il gioco, priva di qualsivoglia elemento sci-fi, Il Signore degli Anelli è stata una delle principali fonti di ispirazione, alla quale è seguito Game of Thrones.
Ridendo, interviene Minagawa, sottolineando come il producer abbia fatto comprare al team il cofanetto con le stagioni della serie TV affinché la guardassero e prendessero a modello per ciò che Final Fantasy XVI voleva essere. Le idee dunque erano molto chiare fin dal principio.
Da lì, prosegue Yoshida, il lavoro si è concentrato tutto sul prendere quel concept e adattarlo a ciò che rappresenta Final Fantasy, fondendoli assieme in modo che tutto potesse percepirsi naturale, in sinergia. Per quanto riguarda i personaggi e il loro design, si è deciso fin dal principio che il centro della narrazione sarebbero state le evocazioni (Eikon) e il team sapeva già che l’approccio non sarebbe stato come negli altri Final Fantasy, dove la magia è sempre parte integrante del processo di evocazione di queste creature: i personaggi stessi sarebbero diventati Eikon e ne erano consapevoli ancora prima di avere la storia.
Da quella certezza hanno creato la storia e delineato i personaggi, passando poi il testimone al team grafico che si è occupato di offrire un volto e in generale un aspetto riconoscibile, ben radicato a tutti loro.
Poi si è trattato di pensare chi fossero questi personaggi, cosa li motivasse, quali fossero le loro aspirazioni, i valori, i conflitti interiori; una volta ottenuto un quadro migliore si è trattato di scegliere un Eikon che più si adattasse alla loro caratterizzazione. Fatto quello, si è di nuovo passati all’aspetto artistico, di modo che l’evocazione stessa riflettesse i tratti del personaggio.
Dopo questa spiegazione, era inevitabile approfondire un po’ più la questione del mondo di Valisthea, della storia che vuole trasmettere e se in qualche modo può essere collegata alla nostra realtà. Soprattutto se, dati i toni cupi di Final Fantasy XVI, qual è la direzione intrapresa dalla narrazione.
La risposta, dobbiamo ammetterlo, non poteva essere più soddisfacente: “No“, ha dichiarato Yoshida,
“non abbiamo mai pensato di voler introdurre nella storia alcun messaggio di sorta legato alla dicotomia bene/male. Da parte nostra non c’è stata la pretesa di voler dire al giocatore cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Nella società attuale c’è questa tendenza a etichettare le cose come giuste o sbagliate ma sappiamo che il mondo è molto più complesso, perciò abbiamo voluto creare una narrazione scevra da questo tipo di messaggi”.
Proseguendo, ha aggiunto che nella sua idea il gioco doveva essere percepito reale, autentico: un’esperienza verosimile, in cui eventualmente identificarsi, avrebbe permesso ai giocatori di goderlo meglio; motivo per cui non potevano permettersi che la storia deviasse troppo dalla realtà al punto da non essere riconoscibile.
Per farlo, esattamente come in Final Fantasy XIV, era necessario creare un mondo i cui problemi si percepissero come familiari, affinché i giocatori vi si potessero riconoscere: motivo per il quale nel gioco ci sono i cristalli madre, dai quali si genera l’etere, che a sua volta permette di utilizzare la magia. Yoshida spiega che se volessimo compararlo al nostro mondo potremmo dire che i cristalli madre sono come dei pozzi petroliferi e l’etere quel petrolio che gli umani usano come fonte di energia quotidiana.
“Tuttavia, poiché i cristalli madre si stanno prosciugando, non c’è più molta energia/petrolio, le risorse scarseggiano e le persone si sentono minacciate da questa situazione, arrivando a pensare di invadere il Paese vicino e combattere per conquistare risorse che a noi mancano. Si crea un conflitto che pur in un contesto high fantasy si percepisce fortemente radicato nel mondo reale, permettendo ai giocatori di riconoscerlo. Inoltre, volendo fare un altro esempio, gli Eikon si possono paragonare ad armi di distruzione di massa (come quelle nucleari) e quindi si ricade di nuovo nel legame con il mondo reale pur restando in un contesto fantasy.”
Paragonato ai capitoli passati all’interno della serie, conclude, FFXVI può percepirsi un po’ diverso perché anziché focalizzarsi sulla luce e sul bene si sono molto orientati sull’oscurità – in un modo che in passato è stato evitato. Tuttavia è proprio focalizzandosi su quest’ultima che si riesce ad accentuare la luce, poiché nel mondo entrambi devono coesistere: bisogna fronteggiare delle difficoltà per formare dei legami. La speranza del team è che una volta finito di giocare, i giocatori portino con loro queste sensazioni, queste consapevolezze, l’idea di aver affrontato delle difficoltà e guadagnato qualcosa di positivo da esse.
Sviluppare un gioco del calibro di Final Fantasy XVI è tutto tranne che una passeggiata di salute, come forse anche solo il paragrafo dedicato alle sue fondamente vi ha fatto capire. Riassumere gioie e dolori dell’intero progetto, peraltro ancora aperto a rifiniture di sorta mancando un mese al lancio, non è semplice ma abbiamo comunque voluto chiedere a Yoshida e Minagawa quale sia stata la sfida più grande e quale la maggiore soddisfazione.
Ciò che le persone si aspettano da un Final Fantasy, hanno risposto, sono un’ottima storia e una grafica altrettanto valida in grado di raccontare quella storia, il che significa molta pressione per loro sul lato prettamente visivo. Questo comporta molte sfide e la più grande di tutte è stata l’utilizzo di PlayStation 5, perché non sapevano cosa aspettarsi: la prima volta che hanno iniziato a lavorarci sopra si sono spinti fin troppo in là, ricreando così tanto dettaglio da superare le possibilità della console. Che si trattasse degli Eikon, dei personaggi o qualsiasi altra cosa, dal punto di vista dei dati hanno esagerato, ricordano con quella risata tipica di chi ormai certi problemi se li è lasciati alle spalle, arrivando ad avere problemi di performance.
Hanno quindi fatto dei passi indietro per capire come mantenere il lavoro svolto in termini di dettaglio, del quale erano soddisfatti, e al contempo ottimizzare il tutto. “Penso ci siamo riusciti alla fine”, afferma Yoshida, “ma ha richiesto davvero tanto impegno e di questo devo ringraziare gli ingegneri, che hanno reso possibile tutto ciò. Da producer, ho supervisionato tutto e ho visto l’ammontare di lavoro per il team, soprattutto per quanto riguarda personaggi come Ifrit e Phoenix non solo in termini di design ma anche di effetti speciali: perché certi personaggi non sono davvero loro finché non entrano in gioco gli effetti di particellari, di luce e in generale tutto ciò che li rende, per l’appunto, loro.”
“L’inizio.” risponde senza esitazione Minagawa quando passimo al momento preferito del progetto. “Perché devi pensare al concept, alla storia e al design generale. La parte creativa, insomma, poiché quando si entra nello sviluppo vero e proprio tutto diventa più difficile”. Per Yoshida, invece, il vero divertimento in quanto producer è quando ci si avvicina al lancio del gioco: promozione, eventi, poter parlare con tante persone diverse e vedere l’entusiasmo che il gioco trasmette, ecco, questo è per lui uno dei momenti migliori della produzione.
Inevitabile è stato toccare un punto caldo come quello del sistema di combattimento. Nella nostra anteprima abbiamo riportato le nostre impressioni in merito e, soprattutto, consigliato di non abbandonarsi a facili pregiudizi guidati dalla nostalgia, ma Yoshida ha approfondito ulteriormente la questione e come si è arrivati alla finalizzazione dell’action in tempo reale di Final Fantasy XVI. Tutto ruota attorno a una soltanto persona: Ryota Suzuki.
“FFXVI rappresenta la nostra prima volta alle prese con un combattimento completaente action”, racconta Yoshida.”e per i primi due anni e mezzo di sviluppo ci sono state non poche difficoltà, che alla fine si sono risolte in un sistema definito. Poi però è sorta un’altra questione: avevamo strutturato il sistema di combattimento, sì, ma dovevamo costruirci attorno il resto del gioco. Come fare? Ci siamo chiesti se fosse davvero la strada giusta da percorrere. Proprio allora, per pura coincidenza, uno dei nostri UI designer (ex impiegato Capcom) ha ricevuto una chiamata da Ryota Suzuki, che dopo una vita passata sugli action avrebbe voluto provare qualcosa di nuovo. Al contempo era però consapevole di saper fare soprattutto quello e non era sicuro che Square Enix potesse essere interessata: ovviamente lo eravamo!”
“Siamo riusciti a convincerlo a fare parte del team, di modo che potesse mettere a frutto tutto il suo enorme bagaglio di esperienze nel nostro modello di gameplay. Quando si è unito a noi si è concentrato non solo sul fatto che fosse un gioco focalizzato sul combattimento action, ma anche che si percepisse come un Final Fantasy – questo era molto importante. Clive non doveva solo essere ‘figo’, serviva portare il concept degli Eikon all’interno del combattimento, incorporarli sia a livello di animazione sia di effetti speciali. Per esempio, quando Clive utilizza le abilità di Garuda non è un mero esecutore esterno: diventa letteralmente Garuda, o parte di esso, con l’artiglio che si estende dal suo braccio per ghermire il nemico e trascinarlo verso di sé. Il concetto era di portare queste evocazioni nel combattimento, renderle parte integrante, cosicché si potesse percepire come un vero e proprio Final Fantasy.”
“Siamo sempre stati consapevoli che alcuni fan avrebbero potuto non apprezzare questo passaggio a un action in tempo reale completo, principalmente perché legati al sistema di turnazione, ed è un aspetto sul quale Suzuki ha voluto lavorare molto: offrire un gioco del tutto action che però potesse aprirsi anche ai giocatori meno avvezzi al genere, o meno inclini a volerlo provare, permettendo di apprezzarlo. Sono aspetti di cui ha tenuto conto, andando a coprire quelle che per certi giocatori potrebbero essere dei punti deboli grazie ai cosiddetti ‘timely accessories’: equipaggiamenti speciali che vanno ad alleggerire, se così possiamo dire, la componente action rendendola più accessibile ai giocatori meno abili, spingendoli a imparare e magari, con il tempo e la pratica, a non dover più fare uso di quegli oggetti.”
A nostro avviso si tratta di una scelta molto oculata e migliore di un qualunque potenziamento alle statisiche che avrebbero solo reso il gioco “rotto”: perché imparare a schivare, se il mio attacco e i miei punti saluti sono così gonfiati da non renderlo necessario? Alleggerendo alcuni aspetti, facendosi in un certo senso più accomodante verso i giocatori meno pratici, li accompagna in un percorso di apprendimento che potrebbe portarli ad apprezzare il genere più di quanto avevano creduto all’inizio.
Yoshida conferma che senza Suzuki, senza la sua esperienza, questa importantissima sfumatura non sarebbe stata possibile e nei, considerata la bontà dell’anteprima, ci fidiamo assai.
This post was published on 23 Maggio 2023 18:00
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