Quando scopro un nuovo videogioco fatto in Italia, scatta in me quella sensazione probabilmente paragonabile all’italiano medio di fronte a una partita della nazionale durante i mondiali.
Dico “probabilmente” perché, personalmente, non me ne frega nulla né della nazionale né dei mondiali, ma presumo che sia un paragone funzionale per spiegare il mio stato di videogiocatore italiano di fronte a The Curse of The Halfrog, un videogioco che mi tocca molto nel personale in quanto non solo è sviluppato a Bologna – la mia città natale – ma è anche ambientato a Bologna.
Dal punto di vista del gameplay, The Curse of The Halfrog è una classica avventura grafica in pixel art dove si combinano oggetti per risolvere puzzle e proseguire nella narrazione.
Come quasi tutte le avventure grafiche, ciò che rende particolare il gioco è la storia: ambientato in una Bologna post-moderna dal gusto vagamente cyberpunk, The Curse of The Halfrog ci mette nei panni di Deccardo, un improvvisato detective, ed il suo gatto, dotato del dono della parola e controllabile dal giocatore in alternanza al personaggio principale.
Al momento il gioco è ancora in sviluppo, e ho potuto provare giusto una piccola demo pubblica (disponibile su Itch.io) che presenta solo un breve scenario introduttivo, ma stando alla descrizione degli sviluppatori la storia ruota intorno alla maledizione che ha colpito il gatto, causata da un culto segreto capitanato da Luigi Galvani (sì, quel Galvani).
Fin qua tutto “normale”, se non fosse che, come anticipato, il gioco è ambientato a Bologna. La demo, denominata Ep.1: The Piazza Verdi Incident, prende luogo per l’appunto in Piazza Verdi, e ciò che mi ha lasciato veramente a bocca aperta è il livello di precisione quasi maniacale con cui la piazza è stata ricreata – dalla perfetta planimetria del luogo fino ad arrivare addirittura al posizionamento reale della campana della campana per la raccolta del vetro.
Follia.
Gli screenshot pubblicati fino ad ora, inoltre, mostrano lo stesso livello di precisione anche per altri luoghi della città, facendo molto ben sperare.
La riproduzione accurata di Bologna, tuttavia, non si ferma ai luoghi: l’aspetto che fa davvero impazzire un (ex) concittadino come me è come The Curse of The Halfrog catturi l’atmosfera dell’underground bolognese tramite dettagli visivi come graffiti antifa, o oggetti come cartelloni di protesta, passando per riferimenti testuali a noti locali di musica alternativa, e arrivando a ricreare personaggi reali all’interno del gioco – come “La Controlla”, una nota senzatetto onnipresente in ogni serata studentesca in Piazza Verdi. Anche Deccardo, seppure non reale, rappresenta in pieno lo stereotipico millenial bolognese: studente fuoricorso, non un euro in tasca e più impegnato ad andare a concerti e proteste di piazza che a studiare. E c’è persino una collaborazione coi Cani dei Portici, una nota band post-metal locale che ha prestato alcuni suoi brani al gioco.
Ma bando alle ciance, lascio che a dirvi di più su The Curse of The Halfrog siano i suoi sviluppatori – Nantucket Studio, rappresentati da Diego, Mirko, Athena, Stefano e Giulio – che si sono prestati per un’intervista.
Purtroppo, dati i tempi di pestilenza (e 1300 km di distanza da Bologna), non è stato possibile incontrarli di persona e intervistarli a dovere in qualche bettola della città di fronte a una o più bottiglie di vino scadente, per cui dovrete accontentarvi di un’intervista testuale scritta in totale stato sobrietà (almeno da parte del sottoscritto).
Ciao Nantucket! Anzitutto, potete spiegare – a parole vostre e nel modo più breve possibile – cos’è The Curse of The Halfrog e perché tutti i giocatori dovrebbero provarlo?
Diego: TCoTH (lo so, sembra un verso di dolore se provi a leggerlo ad alta voce) è un’avventura grafica che si ispira alle atmosfere dei classici della LucasArts, un po’ come Monkey Island o i vecchi Indiana Jones.
Per i giocatori più grandicelli potrebbe essere piacevole tornare verso certi generi ormai demodé, per i più giovani l’occasione per scoprire il punta e clicca.
Mirko: Perché giocarlo? È L’unico modo rimasto per rimanere in contatto con la Controlla (un personaggio famoso della città) o per fare un giro in Montagnola anche durante una PandemiaGlobale™.
Folklore bolognese, gatti maledetti, occultismo galvaniano, cyberpunk all’italiana – The Curse of The Halfrog ha certamente temi tanto specifici quanto eterogenei. Com’è nata l’idea del gioco, e come riuscite a far convivere così tanti elementi diversi tra loro?
Diego: per anni ho seguito la scena videoludica, anche come critico, scrivendo in giro per il web. E ogni volta sentivo che mi mancava qualcosa: volevo stare dall’altra parte della barricata.
Non volevo solamente scrivere di videogiochi, volevo provare a farne uno.
E volevo fosse un omaggio alla Bologna che molti hanno vissuto, fatta di scene underground, punk, momenti estremi (tra sbronze e sostanze artificiali).
Ma il gioco non poteva essere solamente una dedica a Bologna, altrimenti la maggioranza dei giocatori non avrebbe capito e goduto l’esperienza. Sono un appassionato di sci-fi, atmosfere lovecraftiani e di tutto il cyberpunk che va da Nirvana di Salvatores a Neuromante di GIbson. Butti tutto in una pentola, sbatti per bene e lascia cuocere a fuoco basso: ecco il nostro gioco.
Poster dei Fugazi, graffiti antifa, collaborazioni con band post-metal, riferimenti a locali underground della città – è chiaro che The Curse of The Halfrog sia intriso di contro-cultura. È un implicito messaggio politico, o la semplice e reale visione di Bologna con gli occhi del millenial bolognese medio (come Deccardo)?
Diego: entrambe le cose! Bologna è quella, in qualche modo, una città fatta di locali piccoli, notturni, di avventure nascoste tra gli appartamenti studenteschi. Ma come dici tu c’è qualcosa di politico: c’è la voglia di raccontare, con toni scanzonati e la scusa dei cliché del cyberpunk, un mondo in decadenza ma che resiste. La scritta antifa che si vede in Piazza Verdi è la nostra dichiarazione di libertà, e ci piaceva poterlo fare con un videogioco.
Athena: la componente controculturale e studentesca è da sempre una grossa parte dell’anima della città. Era impossibile per noi pensare di non includerla, soprattutto in un momento storico che vede Bologna sempre più vittima di scelte politiche e economiche che mettono a rischio proprio queste dimensioni e realtà in favore di un’immagine ripulita, da “città-vetrina”.
Parliamo dei Cani Dei Portici: com’è nata la collaborazione con la band bolognese? E ci sono altre collaborazioni artistiche in vista per il gioco completo?
Diego: siamo amici dei cani (wof!) da tempo.
Demetrio (il batterista) è un videogiocatore incallito, un fanboy nintendaro della prima ora. E penso semplicemente che sia andata così, eravamo al bar e gli faccio “Deme, posso inserirvi in pixel art nel videogioco?”
Lui ha finto di essere felice, non gliel’ho richiesto. E mi ha fatto anche da beta tester!
Dato che siamo in tema musica vorrei poi citare gli Overlogic, che sono i ragazzi che ci stanno facendo le musiche originali e il soundeffect: stanno facendo un grande lavoro, cogliendo in musica delle atmosfere noir e sci-fi, e non possiamo che ringraziarli.
E sì, ci piacerebbe tantissimo trovare altre band interessate al progetto, perché l’idea è di dare la possibilità al giocatore di poter ascoltare una piccola playlist bolognese dal sapore post-punk-metal-hardcore-rock.
O comunque alcuni brani spunteranno come quello dei Cani, in un determinato momento, una cosa un po’ alla Death Stranding, no?
Athena: tutti noi di Nantucket siamo (o meglio, eravamo) frequentatori incalliti di concerti in città. La musica è una parte importante del nostro ‘vivere’ la città stessa, quindi questa componente è ovviamente finita anche nel videogioco, perché in fondo Deccardo stesso potrebbe tranquillamente essere un ragazzo qualsiasi con noi a un concerto underground.
Mirko: Diego, possiamo fare un livello bonus dedicato emo e tirare dentro Action Dead Mouse e Garda 1990? Vorrei che ogni tanto il giocatore piangesse con me.
Dalla demo e dagli screenshot si evince un livello di dettaglio pazzesco nel ricreare luoghi reali di Bologna. Avete preso in considerazione l’idea di presentare il gioco ad enti locali e/o di settore per ricevere supporto?
Diego: Per adesso ci siamo sentiti solamente con IVIPro (Italian Videogame Program), che ha condiviso il nostro gioco. Effettivamente l’intenzione è, più avanti, di capire in che modo possiamo farci supportare da enti e altri del settore. Effettivamente non conosciamo altri videogiochi che hanno rielaborato la Montagnola come l’ha fatto la nostra pixel warlock Athena, abbiamo Piazza Verdi e in futuro avremo altre location bolognesi.
Athena: Credo anche io abbia potenziale e sia un modo originale per far conoscere la città al di fuori dei suoi confini – non penso siano molte le città italiane che ad oggi possano vantare una propria versione videoludica! Ho sempre pensato che Bologna fosse bellissima, certo non avrei mai immaginato di trovarmi un giorno a ricreare luoghi reali della città in pixel. E’ tanto difficile quanto divertente. Spero di riuscire a rendere al meglio l’atmosfera di certi luoghi: sto gestendo tutto praticamente in solitaria, dai concept agli artwork finali, quindi ho una bella responsabilità.
Avete annunciato di voler tradurre il gioco anche in inglese. Non temete che il gioco sia troppo radicato nel folklore urbano locale per essere compreso e apprezzato all’estero? E quali sono gli elementi che anche giocatori non bolognesi (o non italiani) apprezzeranno?
Diego: Ci affidiamo agli archetipi, i cliché e i giochi narrativi dei generi ai quali si ispira il gioco. Ho passato l’adolescenza e gli anni universitari a guardare film e leggere fumetti e videogiocare, e tutto quello che mi è piaciuto in qualche modo finisce nella scrittura. Mi piace pensare che il gioco possa divertire, prima ancora che ai bolognesi, a tutti gli appassionati di pop culture. O semplicemente ai nerd.
Per quanto riguarda la traduzione abbiamo con noi due ragazzi, Blaze e Mike, che si stanno occupando proprio di quello. E siamo anche a buon punto! Non abbiamo avuto così tanti problemi da questo punto di vista, perché tutto sommato tutti i dialoghi e le battute non sono giochi di parole o pesanti riferimenti alla vita bolognese, anzi. Il personaggio della Controlla, che nell’originale ha una cadenza ciociara/romana, nella versione inglese avrà una pronuncia irlandese. L’idea è di, con la traduzione, rendere il gioco semplicemente appassionante per i fan del punta e clicca con uno stile di enigmi che richiedono una forma di pensiero laterale (per non dire malata). E magari quindi puntare ad eventi online internazionali, reddit, in generale affacciarsi al mercato che parla inglese.
Raccontateci di voi: potete dirci chi siete, quali sono le vostre esperienze relative ai videogiochi, e come vi siete ritrovati insieme a crearne uno?
Diego: ho cominciato col Commodore 64, ricordo ancora Pirates! Di Sid Meier. Da allora non ho più smesso. Poi per qualche anno ho scritto come giornalista per varie riviste online, anche di videogiochi, tra Esquire ed Everyeye. E la scrittura è ancora la mia grande passione. Ma per pagarmi le bollette e la vita faccio il programmatore informatico. Come ci siamo ritrovati? Lo racconteranno gli altri.
Athena: sono una accanita giocatrice di rpg da quando ero ragazzina. Di giorno studio storia dell’arte, di notte smanetto sulla tavoletta grafica. Non ho potuto fare nessuna scuola specifica per game design, purtroppo, e questo è il mio primo vero progetto – nonché un piccolo sogno che si avvera. Per quanto riguarda il ‘come ci siamo finiti’, la risposta è: nella maniera più bolognese possibile. Ci conoscevamo da diverso tempo, poi Diego una sera ci ha convocato al bar davanti a un litro di vino con questa stramba idea per la testa…
Mirko: Ho quasi una generazione di differenza da Diego, ma anche io ricordo Sid Meier’s Pirates! Certo, io però ci giocavo su Windows XP. Da piccolo impersonavo El Cid Campeador su Age of Empires II e sconfiggevo Mefisto su Diablo II insieme a mia sorella. Fin dai miei 14 anni ho sognato di diventare sviluppatore di videogiochi, ed ho studiato informatica fino all’università, ma quando ne ho avuti 23, ho capito che il mondo del lavoro non è poi così colorato come ci si aspetta da ragazzi.
Una sera, durante un mio buio periodo di crisi da lavoro post-moderno di bassa manovalanza, finisco – guarda a caso – al Freakout, dopo un inaspettato sold-out dei FBYC al Covo. Lì incontro un mio caro amico, al quale sciorino tutte le mie turbe capitalistiche. Di tutta risposta, Diego mi propone, eccitato ed un po’ ubriaco, un progetto a cui stava pensando da qualche tempo, che mi avrebbe aiutato a mantenere intatta la speranza, ma anche semplicemente a svagarmi un po’.
Insomma, ha fatto un po’ come quei boss mafiosi che si mostrano caritatevoli e arruolano chi più non ha nulla da perdere.Dopo qualche giorno, ci siamo riuniti al bar con anche gli altri ragazzi, chiedendoci ad alta voce da cosa si dovesse iniziare per creare un videogioco.
Sappiamo che avete partecipato a diversi eventi per dev italiani, come Svilupparty. Cosa ne pensate dell’attuale situazione dell’industria del videogioco in Italia?
Diego: E’ un piccolo mercato che si sta specializzando nel serious gaming o in forme ibride: Wheels of Aurelia, Riot, BO020880 (sulla strage di Bologna) , per dire un paio di nomi. O Hard Times di Radical Fiction, simulatore di vita da senza tetto. Poi c’è chi fa cose estreme, come Nicola Piro di Grezzo 2 e Botte & Bamba. Ma non sono un grande esperto del mercato italiano, ma mi piace citare quella che è attualmente la dev house italiana che preferisco: From Yonder, che vengono da Roma, e hanno fatto cose bellissime cone Circle of Sumo e Red Rope.
Mi piacerebbe però nascessero più fiere a tema, proprio come lo Svilupparty, perché è bello condividere online e gli eventi in streaming, ma vuoi mettere quel profumo (?) di sudore, le chiacchiere, il rumore, le amicizie e le giornate che si passano giocando stando tutti assieme sotto lo stesso baraccone?
Insomma, Covid permettendo.
This post was published on 15 Dicembre 2020 12:57
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