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Interviste

Intervista a Marco Valtriani | Parlare di giochi a modino nel 2019

Dopo anni di stalking via blog e su facebook, ho finalmente avuto modo di sedermi a parlare con Marco Valtriani. Per chi non lo conoscesse , Marco è un autore di esperienza decennale (Ha sviluppato, tra gli altri Vudù, Super Fantasy  e 011),  da sempre impegnato anche nella divulgazione degli aspetti professionali relativi al mondo ludico. Quando Davide mi ha chiesto di condurre e riportare questa chiacchierata fatta al Modena Play non ero sicuro di come me la sarei cavata. Da redattore in erba ero e sono tutt’ora pieno di dubbi e con poche certezze, ma Marco ha avuto molta pazienza e ha saputo darmi delle risposte molto esaustive nel mio desiderio di comprendere meglio quale futuro possa avere la critica ludica in Italia.

Quando penso a parlare di un gioco la cosa più importante è quello che provano le persone intorno al tavolo, che faccia hanno i giocatori, perchè al momento per me di descrivere il contenuto della scatola e il regolamento in maniera pedissequa non me ne frega niente. Per te qual è l’aspetto in cui bisogna distinguersi per esprimere qualcosa di più rispetto a un post a caso su facebook?

Marco: Credo sia importante fare subito una precisazione: il giocatore appassionato che parla di giochi per i fatti suoi su Facebook sta esprimendo il suo gusto, non c’è niente di male nel farlo, ma chiaramente chiunque abbia velleità divulgative deve andare un po’ oltre. Avere un po’ di esperienza e formazione, sia teorica che sul campo, permette per esempio di esprimere un’opinione ragionata. Di base, insomma, il gusto è una valutazione “di pancia”, emotiva, che tutti possono esprimere, mentre l’opinione dovrebbe essere basata su dei fatti, altrimenti non è un’opinione informata, anzi, probabilmente è solo una vaccata. Per esempio, io posso dire che Citadels è più coinvolgente se giocato da quattro giocatori in su perchè è un gioco che si basa sul bluff e quindi migliora se ci sono più di tre giocatori, ma posso anche dire che Citadels è più coinvolgente se giocato da quattro giocatori in su perchè perchè le monetine sembrano Alpenliebe. Anche se la conclusione è giusta in entrambi i casi, la seconda non è un’opinione informata, perchè non poggia su nessuna base sensata.

Oltre a questa distinzione, quando si parla, di giochi come di qualsiasi cosa, conta anche il contesto: se i miei amici giocatori mi chiedono informalmente cosa ne penso di un gioco che a me non piace, conoscendo i miei gusti e i loro è facile che il mio commento sia un signorile “lascia fa’, quel gioco lì è una merda”. Mi permetto di dirlo perché il contesto è informale e loro sanno benissimo che io sto parlando in relazione al “nostro” target e secondo il nostro gusto. Se invece, senza premesse né motivazioni, sparassi a caso un giudizio del genere in un contesto pubblico, non starei “informando nessuno” su niente, starei solo diffamando un prodotto in modo piuttosto rozzo.

Se fai divulgazione non puoi dire le cose come se tu parlassi coi tuoi amici, e non parlo solo della forma, intendo proprio come contenuti. Devi dare delle opinioni informate, devi fare un po’ più d’attenzione di quella che faresti mentre chiacchieri davanti a una birra con gli amici. Insomma, non puoi sparare il tuo giudizio soggettivo di pancia, positivo o negativo che sia, magari cercando di spacciarlo come “una cosa oggettiva”.

Sul vostro sito mi piacciono, per esempio, le recensioni di Massimo Brignolo. Di recente ho letto quella di Cryptid, un gioco che non è per nulla il mio genere e che non ho nessuna voglia di rigiocare. Leggendo la recensione di Massimo sono rimasto piacevolmente colpito da come, pur parlando bene del gioco, sia riuscito a indicare chiaramente il target del gioco e, pur parlando diffusamente dei punti di forza di Cryptid, abbia anche detto chiaro e tondo quali siano i difetti dello stesso rispetto al target o a categorie particolari di giocatori, come gli amanti dei giochi più tematici.

Leggendo la recensione ho proprio pensato “il gioco sembra fatto bene, ma chiaramente non fa per me”, che è quello che penso di Cryptid. La recensione, quindi, ha fatto il suo lavoro, ha fatto quello che dovrebbe fare un contenuto divulgativo: informarmi e orientarmi rispetto a un gioco. Vale per tutto l’intrattenimento, posso farti anche un esempio a livello videoludico: io non ho comprato Sekiro, perchè non sopporto i Soulslike. Mio figlio invece li adora, è tipo alla settima run di Bloodborne e e ha umiliato tutti i boss dei vari Dark Souls. Ora, io non direi mai che “Sekiro è una merda” perché non mi piace il genere, è chiaro che non sono il target di quel prodotto e il mio giudizio è viziato dal mio gusto. Ma se vedo che mio figlio, che invece è “in target”, ci gioca e si diverte, è facile che io pensi che il gioco probabilmente è ben fatto.

Marco Valtriani ad Essen durante una dimostrazione di Super Fantasy Via BoardGameGeek

Direi che sono d’accordo con te quando dici che ti concentri su cosa provano le persone al tavolo: un gioco non è solo un mucchio di meccaniche che devono funzionare a livello matematico, quel che conta è quello che si prova giocando, quella che comunemente viene definita “esperienza di gioco“, che è una cosa squisitamente soggettiva, ma che se si riesce a spiegare è utilissima per chi legge. Ci sono recensioni amatoriali che, a un occhio esperto, sembrano proprio scritte partendo solo dalla lettura del regolamento, e sono recensioni che secondo me sono utili come un attrezzo per affilare la panna montata, perché penso che un lettore voglia e meriti qualcosa di più. E, ribadisco, in realtà descrivere l’esperienza di gioco è il modo migliore per far capire di cosa si sta parlando. Se l’esperienza di gioco è positiva, se un gioco fa davvero quello che promette, è una cosa che “vedi” solo quando il gioco viene giocato dal suo target, se il target è quello giusto e i giocatori sono attenti, concentrati, divertiti, beh, il gioco funziona. Magari a te può anche fare schifo al cazzo, ma da recensore o divulgatore dovresti avere l’onestà intellettuale di ammettere che funziona e che al suo pubblico di riferimento piace, è quello che dicevo su Cryptid, magari a me non piace, ma non è “oggettivamente brutto”.

Purtroppo invece a volte capita che un recensore prenda un gruppo composto al cento per cento da amanti di eurogame, gli faccia giocare un american e siccome tutti al tavolo alla fine si lamentano che c’è nel gioco pesa troppo il “fattore culo”, lui in fase di recensione infila verso la fine una frase fatta sul fatto che l’alea troppo preponderante e molla un votaccio al gioco. Può succedere anche il contrario, con un amante dei giochi tematici che dà un voto basso a un onestissimo eurogame, che fa il suo lavoro più che bene, ma che per lui è troppo freddo. Insomma, il recensore deve giocare il gioco con il target giusto. Se fai giocare Mage Knight a un gruppo di bambini di cinque anni, quelli che non si sono addormentati ti diranno che non hanno capito una fava del gioco, anzi, forse un paio valuteranno l’ipotesi di suicidarsi ingoiando manciate di cristalli di mana. Ma non è un problema del gioco, è che il gruppo non è adatto al gioco che sta provando. Questa cosa che i giochi hanno dei target specifici spesso sfugge a molte persone che parlano di giochi: posso considerarlo un peccato veniale in un appassionato, ma credo sia un pessimo segno in un professionista dell’informazione o della divulgazione. Quando collaboravo col Puzzillo era un trucco che usavamo spesso: esasperavamo i difetti veri e poi aggiungevamo le considerazioni che avrebbe aggiunto una persona del target opposto a quello del gioco gonfiandole di iperbole.

Insomma, l’esperienza di gioco è una cosa soggettiva. Ecco, a volte mi sembra che si sia perso completamente il concetto della soggettività, un sacco di recensori sono convinti di dire cose oggettive quando invece stanno parlando di cose più che opinabili. Di oggettivo c’è il numero di giocatori, il tema, quali meccaniche vengono usate, che tipo di interazioni sono consentite o che di fonti di incertezza vengono utilizzate. Poco altro, il resto è in larga parte soggettivo. Può essere oggettivo un difetto formale come il downtime o l’eliminazione di un giocatore, ma anche nel caso dei difetti parliamo sempre di concetti relativi: il downtime è tollerabile un un gioco profondo, ma è un problema gravissimo in un gioco per bambini, l’eliminazione dei giocatori è un problema marginale in un party game molto breve, ma è devastante se avviene nei primi turni di un gioco magari molto lungo.

Ci sono un sacco di fattori che non vengono quasi tenuti in conto e che invece pesano tantissimo sull’esperienza di gioco: per esempio, il gruppo di giocatori quanto è stanco? In che contesto siamo? Mi è capitato di dare “di pancia” giudizi negativi su giochi provati magari nel caos di un evento o a fine fiera, quando in realtà ero semplicemente stanco morto e il mio cervello mi stava dicendo “uè, và che non ce la faccio”. Ricordo di aver detto al mio gruppo un devastante “ammazza che gioco di merda” di un gioco di Enrico Pesce e Federica Rinaldi. Non era mica vero, non era colpa del gioco, era colpa della confusione e della mia stanchezza. Il gioco era SATOR e dopo averlo riprovato un paio di volte è diventato uno dei miei giochi preferiti, tanto che ho comprato anche l’edizione deluxe con la cover in pelle e metallo. Insomma: una recensione è soggettiva ed è influenzata da miliardi di fattori, sarebbe bellissimo leggere articoli scritti da gente che, oltre a essere competente, è perfettamente conscia di questa cosa e ne tiene di conto.

Insomma, far bene divulgazione fa bene a tutti. Già il fatto che siamo qui a parlarne secondo me è una cosa buona, è un approccio ragionato e non un buttarsi nella mischia a caso.

La mentalità odierna da influencer porta a mettere molto ego in quello che si scrive, e una cosa che non facciamo mai è far rendere conto alle persone del lavoro che c’è dietro i singoli giochi, le decine di iterazioni, le ore di playtest, li facciamo apparire un po’ come fatti per magia. Quale sarebbe il modo giusto di comunicare questo aspetto?

Marco: Purtroppo secondo me il mondo del gioco tabletop ha un problema enorme: se si escludono rarissimi esempi virtuosi, manca una critica ludica “ufficiale“, riconosciuta come tale sia dal pubblico che dagli editori. Spesso le persone con le basi tecniche solide sono autori, e quindi o non possono fare recensioni, perché andrebbero in conflitto d’interessi, o magari non hanno competenze comunicative e sono noiosissimi da leggere, o magari sono puntigliosi, troppo tecnici e pure un po’ sociopatici e passano da arroganti antipatici. Sì, sto parlando anche di me.

Poi c’è questa anomalia per cui a volte il giocatore medio si considera più esperto di chi fa divulgazione, e dato che a volte a fare divulgazione è effettivamente qualcuno che lo fa come hobby a scappatempo c’è pure il rischio che sia vero. In altri settori dell’entertainment non funziona così e la differenza è lampante.

Nel mondo del cinema la critica “ufficiale”, per esempio, esiste. Ci sono i critici come Paolo Mereghetti, da un lato, e dall’altro ci sono i blogger, che però sono una cosa ben distinta. I blogger, agli occhi del pubblico,  “contano meno” della critica, ma al tempo stesso dalla critica imparano, e più si avvicinano nel modo di esprimersi alla critica, più diventano autorevoli, talvolta ottenendo risultati davvero buoni e facendo una divulgazione di alto livello. Un ottimo esempio è I Quattrocento Calci, un sito su cui scrive gente con le palle quadrate: pur essendo laureato in cinema, sui generi che trattano mi fido assolutamente più di loro che di me. Hanno un modo di esprimersi a tratti scanzonato e “pop”, ma sono delle persone preparatissime e danno giudizi ragionati, senza mai dimenticare la soggettività dei propri gusti. Questa cosa nel mondo del gioco da tavolo spesso manca, perché manca una critica ufficiale che faccia da riferimento per gli appassionati: è vero che ci sono esempi di ottima divulgazione, sia a livello amatoriale che professionale, ma i “critici” propriamente detti, persone preparate sulla teoria e sul game design, che conoscono il mercato e i processi produttivi si contano sulle dita di una mano, questo credo sia innegabile e penso che sia un problema a cui, al momento, non vedo soluzione.

Per rispondere alla tua domanda, il problema è che per valorizzare le professionalità del mondo ludico bisognerebbe avere una conoscenza un minimo approfondita delle stesse. Bisognerebbe che ci fosse una critica vera, ossia gente che conosce bene quelle cose che dicevo prima (il mercato, i processi editoriali, la storia del gioco, i principi di design) e che sappia al tempo stesso comunicarle bene al target di riferimento, ossia i giocatori.

011 il gioco di Marco Valtriani e Paolo Vallerga ambientato a Torino Via BoardGameGeek

Ricadiamo quindi nel discorso del target. Intendi che la correttezza dell’informazione dovrebbe essere legata a un linguaggio più vicino “alla gente”?

Marco: Innanzitutto bisognerebbe trovare una formula per spiegare i termini “di base” alle persone. Non dico di scrivere un trattato su tutte e dodici le fonti di incertezza usate nel gioco in generale, se nel gioco da tavolo se ne usano tre, quattro o cinque, bisogna spiegare ai giocatori almeno quelle. Bisogna far capire che “incertezza” non è solo un tiro di dado, ma sono anche anche le intenzioni e le azioni degli altri giocatori, per esempio negli scacchi l’alea non c’è, ma l’incertezza è data dalle mosse dell’avversario. L’interazione, ossia quanto le mie azioni influenzano quelle degli altri giocatori, è un concetto formalizzato e penso che sarebbe fico se la maggioranza degli appassionati sapessero di cosa sto parlando. Lo dico per la mia sanità mentale, perché ogni giorno leggo sui social o nei forum un quantitativo di vaccate che supera di parecchio la mia soglia di tolleranza.

Ai tempi di Board Game Designers Italia avevo lavorato su un dizionario di termini tecnici con Diego Cerreti e altre persone, fra cui alcuni capaci divulgatori. Il problema è che su questi progetti, quando si lavora con persone diverse, magari con competenze diverse, è difficile mettersi d’accordo e spesso va a finire che non se ne fa di nulla. Ti faccio un esempio: nella teoria del game design esiste un modello descrittivo che, semplificando all’osso, chiama “meccanica” tutto quello che riguarda le regole, “dinamica” il comportamento dei giocatori e “estetica” quello che i giocatori provano (in modelli successivi il termine viene tendenzialmente assimilato a quello di “esperienza di gioco”. ma in quel modello specifico il nome è proprio “estetica”). Quindi, per esempio, “piazza una tessera e prendi un cubetto” è una meccanica, perché è una cosa scritta nelle regole; il bluff è una dinamica: nessuna regola del Poker ti obbliga a dire cazzate, lo fai perchè ti conviene, mentre il brivido che provi prima di un tiro di dado con cui potresti o meno uccidere il boss finale è estetica. Ora, io capisco che “estetica” possa essere un termine controintuitivo perchè fa pensare alla grafica del gioco, ma non puoi dire a un game designer “estetica non si capisce, non possiamo cambiarlo in emozioni”? Si tratta di un termine formale, non puoi cambiarlo come ti pare, sarebbe come dire a un regista che siccome non ti piace la parola “inquadratura” allora per spiegarla alla gente vuoi cambiarla in “contorno”, se il regista è Nanni Moretti è facile che ti dia una testata. Per cui puoi avere un linguaggio comune quanto vuoi ma appena esci da una cerchia ristretta trovi qualcuno che deve per forza dire la sua su queste cose, e va a finire che il lavoro fatto non riesce a “concretizzarsi”. Sono passati anni e stiamo ancora cercando di uscirne, anche se ammetto che un po’ è anche colpa mia che ho perso l’entusiasmo iniziale.

A questo proposito avrei una richiesta per tutti quelli che parlano di giochi, a qualsiasi livello: se dovete usare il linguaggio tecnico male, per favore, non usatelo. Non dite “meccanica” se non sapete cos’è, usate il più comune “regola”. Se volete parlare di interazione diretta mirata o interazione indiretta dovete sapere cosa stracazzo sono, se non lo sapete parlate di quanto siano accesi gli scontri o di come ci si contendono le risorse in un mercato comune, per pietà. Usare i termini tecnici senza conoscerli per darsi un tono è una cosa terrificante e anche un po’ ridicola.

Comunque, fare un po’ d’informazione su queste semplici nozioni sarebbe utilissimo. Poi a livello di stile ognuno sceglie il suo, anche se direi che la chiarezza, secondo me, è una caratteristica assolutamente necessaria per fare divulgazione. Di canali anche ottimi per approfondire ormai che ne sono parecchi, forse quello che manca è una divulgazione che inizi a insegnare un po’ di ABC del gioco anche al giocatore medio. Già che ci siamo, dato che i giocatori “imparano” dai recensori e dai divulgatori, forse sarebbe carino trovare qualche articolo sul concetto di target che dicevo prima, è un po’ desolante vedere commenti di gamer che dicono “eeeh, ma è noioso, è ripetitivo e c’è troppa fortuna” riferito a giochi per bambini di 5 anni.

Via BoarGameGeek

Collegandoci a questo discorso, secondo te è giusto quindi che in una redazione ci siano più persone che coprono target differenti?

Marco: Penso che una buona idea sia dare una infarinatura di base a tutti, per poi permettere a ciascuno di specializzarsi su quello che gli piace, in modo che innanzitutto un recensore non debba giocare per forza a roba che gli sta sul cazzo, che mi pare il minimo. L’idea di “specializzarsi” mi piace più che altro perché non tutti sono in grado di valutare tutti i generi in modo obiettivo, a volte nelle recesioni amatoriali si trovano paragoni campati in aria che a me fanno morire dal ridere. Magari il recensore ha provato due giochi diversissimi a breve distanza temporale e se ne esce con “Beh, sì, Fallout è un bel gioco, ma un po’ farraginoso: siamo molto distanti dalla velocità e dall’immediatezza di Dobble”. E grazie al cazzo, non lo vogliamo aggiungere?

Secondo me c’è anche da tenere presente che alcuni target sono più “difficili” di altri.

Per esempio, recensire giochi per bambini, un po’ come farli, necessita di avere alcune conoscenze rispetto a “cosa sa fare” un bimbo a seconda dell’età. Non è il mio campo specifico, ma ho lavorato a giochi per il target 5+ e ovviamente ho dovuto studiare cosa sono in grado di fare bambini quell’età, e come devo saperlo io che progetto il gioco dovrebbe saperlo anche chi vuole parlarne in modo informato. In questo senso io seguo con molto piacere Matteo Sassi di Educere Ludendo, che quando scrive riesce a tratteggiare egregiamente non solo le caratteristiche principali, ma anche gli elementi educativi dei vari giochi, sia quelli dichiarati che quelli accessori.

Insomma, bisogna sapere di che cosa si parla quando si scrive, altrimenti si fa la figura di quelli che rispondono alle domande su Google Maps senza sapere le risposte.

“Sapete che orari fa il locale?”

“No.”

Utile, facciamo che la prossima volta il dito con cui hai digitato la risposta ti dico io dove infilartelo.

Via BoardGameGeek

Cosa pensi della diatriba su cosa sia il vero gioco da tavolo e cosa no?

Marco: Mi ricorda tanto i metallari fanatici. Quelli che devono stabilire se il “true metal” siano i Motorhead o i Manowar anche se in realtà non gliene frega un cazzo a nessuno e ognuno ascolta cosa gli pare. Ognuno nella sua nicchia si sente di avere la verità rivelata e pensa che il “suo” hobby sia quello vero, il migliore, l’unico degno di nota.

Ho sentito persone sostenere che i giochi da tavolo, e in particolare gli eurogame strategici, sono giochi obiettivamente migliori degli altri perchè stimolano il ragionamento, il pensiero laterale e altre abilità intellettive, e che quindi il gioco da tavolo è un hobby “migliore degli altri”. Ma uno potrebbe rispondere che giocando a calcetto uno è più allenato, più resistente, più in salute e che il gioco da tavolo sarà anche “migliore”, ma col calcetto si muore più tardi.

Questa cosa che il gioco da tavolo può potenziare alcune abilità e può allenare le facoltà intellettive è indubbiamente vera, ci mancherebbe, ma secondo me, anche senza scomodare gli sport, è un po’ una gara purerile cercare di capire quali giochi sono “meglio” degli altri, perché come dicevo prima c’è una grossa componente di soggettività.

Nel modello di cui parlavo prima, quello che descrive meccanica, dinamica ed estetica, gli autori hanno anche spiegato il concetto di “kind of fun”, cioè di varie forme di “piacere” nel gioco. Ognuno trae piacere da cose diverse: dall’interazione sociale, dal superare delle sfide, dalla gradevolezza dei materiali, dall’esprimersi in modo creativo. Nei videogiochi c’è chi adora il gameplay nudo e crudo, chi vuole seguire (o plasmare) una storia coinvolgente, chi se ne fotte e vuole solo giocare a un gioco di calcio con la grafica pompata a bestia. Non è che uno di questi tipi di giocatori ha ragione, è solo che ognuno appaga i suoi appetiti ludici in modi diversi, non esiste nessun “true game”, esistono tanti giochi diversi per target diversi.

Via BoardGameGeek

Il famoso target con cui vi sto rompendo le palle fin dall’inizio, per un game designer non è altro che una suddivisione del pubblico per “kind of fun”. Quando abbiamo progettato Vudù abbiamo pensato a un gioco per giocatori casual e coetanei e abbiamo inserito delle meccaniche che incentivassero determinati tipi di dinamiche al tavolo e, di conseguenza, dei kind of fun ben precisi (senza scendere nel tecnico, quelli relativi alla fisicità e all’interazione sociale). Se dovessi progettare un gioco strategico euro sceglierei altri kind of fun, e ovviamente se dovessi sviluppare un american dovrei sceglierne altri ancora. Ma nessuno è il “true game”. Il true metal, invece, è chiaramente quello dei Manowar.

Chi fa divulgazione magari non lo fa per il solo dovere, ma anche perchè ha interesse rispetto a un target, e quindi vuole parlare specificatamente a quest’ultimo con del contenuto fatto appositamente…

Marco: Se l’obiettivo è avere un sito o una rivista importante, che genera profitti, con una redazione di professionisti, è chiaro che oltre a voler creare contenuti di qualità vuoi anche che questi contenuti arrivino a un pubblico ben preciso. In questo senso, dato che parliamo di professionalità, penso che sia inevitabile che tu abbia scelto prima il tuo target, altrimenti il rischio di fallire aumenta del “siamonellamerda” percento, anche perché spesso, soprattutto per partire, hai bisogno di sponsor. E, tendenzialmente, uno sponsor è disposto a pagare solo se pensa che il tuo target e il suo coincidono.

Con questa domanda torniamo un po’ all’inizio della discussione, all’idea di “critica” di cui parlavo prima. Per anni le recensioni dei giochi sono state appannaggio degli appassionati e sono rimaste a un livello spesso terribilmente amatoriale. Sappiamo tutti come funzionava (e in molti casi funziona ancora): appassionati con pochissime competenze tecniche se non quelle derivanti da esperienze personali come giocatori ricevevano le scatole dagli editori, e poi scrivevano una recensione il cui 80% era costituito dalla descrizione del regolamento e dei componenti. La “recensione” siffatta, di solito, glissava clamorosamente sui difetti del gioco, anche perché i difetti magari emergono dopo qualche partita e invece quella recensione è stata fatta dopo aver letto il regolamento o dopo aver giocato una sola volta, in alcuni casi. Bada bene, non sto criticando a sangue chi fa così, è un’attività fatta per passione, a livello amatoriale, e anche se ci sono blogger che leggo con grandissimo piacere (nello specifico, intendo quelli che scrivono di esperienze di gioco e in cui si vede che hanno davvero “vissuto” il gioco) o che comunque fanno recensioni dignitosissime, siamo ancora lontani dal concetto di divulgazione e informazione professionale, perché si tratta di recensioni fatte con e per passione, magari sulla spinta dell’entusiasmo, spesso trattando solo i propri giochi preferiti… d’altra parte, chi te lo fa fare di perdere tempo, senza nessun rientro, con una cosa che ti fa cacare? Davvero, non ci vedo nulla di male, però dev’essere chiaro che informare e divulgare sono mestieri, non hobby: serve preparazione, servono competenze e serve una strategia.

Come dicevo, la divulgazione professionale, indipendentemente dalla presenza di accordi con sponsor e simili, ha come finalità fornire un servizio al pubblico. L’editore che sovvenziona il sito o la rivista sa in anticipo che quello che il divulgatore farà non sarà una parafrasi delle regole con due considerazioni scontate, quello che farà sarà parlare onestamente del gioco al fine di far capire al target potenziale se quel gioco fa o meno per lui.

Via BoardGameGeek

A proposito del rapporto con gli editori e avere il materiale di review o meno, per me è importante far passare ai lettori che noi stiamo facendo un servizio a loro, non agli editori, perchè il mio obiettivo è fargli capire come e perchè spendere i loro soldi in una maniera che porti valore a loro…

Esattamente. Il materiale di review dovrebbe essere una cosa scontata, ormai: all’uscita di un gioco l’editore dovrebbe già sapere quali sono i divulgatori che possono raggiungere il target del gioco e fornire una copia e\o un press kit. D’altro canto, un divulgatore critico serio dovrebbe essere il primo a rifiutare scatole che non c’entrano una beneamata fava con i giochi normalmente trattati dai propri redattori e soprattutto con il proprio pubblico.

Comunque mi sembra che le cose stiano pian piano evolvendosi anche da noi, per fortuna ci sono esempi di divulgazione professionale anche in Italia, ormai. Oltre a player.it, che penso stia producendo molti contenuti di ottimo livello (sennò non sarei qui a parlare con voi), un esempio estremamente virtuoso secondo me è quello di IoGioco, la rivista cartacea, che pur essendo una  una rivista per appassionati di giochi è chiaramente realizzata con l’idea di rendere ogni argomento trattato, anche quelli più tecnici, accessibile e comprensibile a tutti. Ma potrei menzionare l’evoluzione a livello redazionale della Tana dei Goblin, che pur rimanendo un sito di appassionati grazie a Marco Fregoso e agli altri redattori sta producendo una serie di approfondimenti sul game design dannatamente interessanti, o alcuni podcast molto ben realizzati come il Dado Incantato di Bianchi, Latini e Marotta, che a partire dal payoff, che menziona le esperienze ludiche, chiarisce subito che si parlerà di esperienze di gioco e non di recensioni.

Quest’evoluzione nella divulgazione, il poter leggere approfondimenti di buon livello e vedere realtà legate al videogioco interessarsi al mercato tabletop credo che siano tutti segnali che diversi attori hanno capito c’è una certa “fame” di qualcosa di diverso rispetto all’amatorialità che imperava negli scorsi anni e stia spingendo da un lato le persone più capaci e motivate a migliorarsi, dall’altro editori e distributori a investire nuovamente nella divulgazione, dopo un periodo a mio avviso un po’ povero di alternative.

I progetti per il futuro

Alla fine della chiacchierata, abbiamo anche affrontato le novità in arrivo per quanto riguarda i giochi sviluppati da Marco Valtriani e i suoi collaboratori:

Vudù, pubblicato da Red Glove, vedrà diverse espansioni modulari con il rilascio di nuove bamboline con relativi set di carte, con condizioni di passaggio variabili rispetto al gioco base, assicurando partite ancora più deliranti.

Marco si è detto molto contento di aver intrapreso un nuovo progetto, dopo 011, con Paolo Vallerga di Scribabs, si tratta di un cooperativo “tutti contro il gioco”, su mappa modulare, basato su un sistema di hand building. Sarà un dungeon crawler tosto, con un sistema che elimina la “fase dei mostri” tipica del genere facendo agire i nemici molto velocemente alla fine del turno di ogni giocatore. Dato che la scelta iniziale delle azioni dei giocatori è simultanea, il downtime tipo del genere si riduce quasi a zero.

Da quando abbiamo svolto l’intervista Marco ha pubblicato sul suo blog i primi dettagli sul nuovo gioco che potete trovare qui.

Ringrazio di cuore Marco per l’infinita pazienza e per la quantità mastodontica di materiale su cui lavorare che ci ha dato. Spero personalmente di poter mettere in pratica nel mio lavoro molti degli spunti di riflessione forniti dall’intervista, con l’obiettivo portarvi articoli con la qualità più alta possibile, sempre qui su Player.it!

 

This post was published on 27 Giugno 2019 15:26

Luca Trevisani

Programmatore di giorno, teatrante la notte, sopravvive alle intemperie della vita giocando e facendo giocare. Ci crede tantissimo che un giorno diventerà Game Designer, ma nel frattempo osserva affascinato il rapporto tra le persone e le esperienze ludiche.

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