Vento sotto le ali. Terra, mare, ancora terre e poi foreste e ghiaccio a perdita d’occhio. La corrente d’aria gelida, che s’insinuava serpeggiando nel braccio del fiordo, spingeva e sosteneva una coppia di corvi, dagli occhi acuti e dalle nere piume che emanavano riflessi iridescenti cogliendo di tanto in tanto qualche lingua di luce. Fendevano l’aria quasi senza alcun fruscio, ed avendo ricevuto in dono dagli dèi un’intelligenza superiore alla norma, erano ben consci della rotta e della destinazione verso cui erano stati indirizzati.
Quando avvistarono un piccolo villaggio incastonato tra le pendici dei monti e il limitare della foresta, uno di quei borghi che non c’è nemmeno bisogno di segnare sulle mappe e in cui tutti sono imparentati alla lontana, i corvi virarono decisi e iniziarono a perdere quota.
A due passi dalla rabberciata porta in legno di faggio, un grosso umano emanava vapore da quasi ogni punto della pelle lasciato scoperto dagli strati di pesanti abiti che lo avvolgevano come un baccello. *Thud*, un tonfo. *Thud!*, un secondo colpo. *THUD!*, un terzo impatto, più forte, spaccò in tre parti il testardo pezzo di betulla che aveva osato sfidare la sua ascia.
Con una delle punte dell’attrezzo, l’uomo agganciò il ciocco più grosso, lo portò davanti al viso fino a inondarlo col vapore del fiato, e grugnì. «Maledetti nodi», borbottò. Dopo un istante decise di passare direttamente alle minacce: «Vedremo chi è più cocciuto», bofonchiò tra i denti, anche se negli immediati paraggi non c’era anima viva ad ascoltarlo, a parte un anziano cagnone di razza indefinibile che sonnecchiava appena fuori l’uscio.
Lanciò il ciocco sulla pila di legna ammonticchiata disordinatamente su un lato dell’abitazione di tronchi e argilla, poi si voltò per agganciare un altro pezzo di legna da sistemare sul massiccio e nodoso tronco di olmo, segato poco sopra l’altezza del ginocchio ma ancora saldamente radicato nel terreno, che fungeva da ceppo.
Nel voltarsi, però, notò due sagome scure che planavano decise verso il tetto di casa sua, ricoperto di zolle erbose per proteggere l’interno dal gelo pungente. Le zampette degli uccelli toccarono l’erba ormai secca, e presero a fissarlo con quegli occhietti inquietanti.
Il cane, Garmr, drizzò un orecchio e aprì un singolo occhio assonnato, strappando un sorriso al grosso umano. Magari poteva trattarsi dei corvi Huginn e Muninn, il Pensiero e la Memoria del Padre-di-tutti, oppure -più probabilmente- era finalmente arrivato il momento di piantarla con la vita bucolica.
L’uomo si sgranchì il collo taurino e le spalle robuste, raddrizzando la schiena fino a sentire una soddisfacente serie di scricchiolii, poi infisse l’ascia nel ceppo e fece qualche passo indietro, nella neve fresca.
Uno dei corvi saltellò lungo la sommità del tetto, poi spiccò un breve volo per andare ad appollaiarsi sul braccio dell’umano, gentilmente offerto allo scopo.
Sfilandosi con i denti un pesante guanto foderato di pelliccia, l’uomo recuperò, con la mano finemente tatuata e subito arrossata dal freddo, il biglietto strettamente arrotolato e assicurato nell’apposito, minuscolo astuccio legato a una delle zampette del corvo.
Srotolò il cartiglio e, sollevando nubi di vapore con il respiro, lesse tra sé e sé le rune finemente e fittamente vergate:
«Rúnseggr Hárrsen, fratello in Odinn,
ancora una volta il Tempio e i tuoi fratelli hanno bisogno della tua mente affilata e del tuo braccio vigoroso.
Un traditore è stato scoperto, e un traditore va punito come si conviene.
Ti aspettiamo tra due giorni, e un Maestro dell’ordine ti accompagnerà nella seconda parte del viaggio, con tutto l’occorrente per il rituale.
Che il Padre vegli sui tuoi passi, e che il Vegvisir guidi il tuo cammino,
Fróðrmundr Múgrsen, Custode delle Rune»
Il grosso umano rilesse quelle parole ancora una volta, poi ripose il cartiglio dietro la cintura di cuoio, al sicuro.
Il corvo agitò le ali, forse stanco a causa del viaggio, e atterrò maldestramente sul ceppo. Rúnseggr, perché questo era il suo nome, si diresse all’uscio dell’abitazione, scavalcando il vecchio Garmr, entrò nel relativo tepore e dopo qualche istante ne uscì recando con sé dei pezzetti di carne di cervo.
Ne gettò alcuni nella neve, ma ne offrì un paio anche allo scodinzolante proprietario dei grandi occhi bruni che avevano seguito con attenzione i suoi più recenti movimenti, improvvisamente privi di ogni traccia di sonno. Entrambi i corvi si lanciarono sul lauto pasto, per rifocillarsi prima di rimettersi in volo per chissà dove, e consegnare il messaggio affidato all’altro uccello.
Rúnseggr aveva smesso da tempo di preoccuparsi dell’altro messaggio, dell’altro corvo, dell’altra destinazione: per quel che ne sapeva, i messaggeri che dal Tempio di Odinn raggiungevano i Custodi della Rune, e poi da lì portavano i cartigli fino agli agenti dell’ordine, viaggiavano sempre in coppia.
L’uomo sospirò, emettendo una gigantesca nube di vapore che per un istante attirò l’attenzione di Garmr, tutto impegnato a masticare. C’erano preparativi da intraprendere, rune da tracciare, auspici da consultare, e poi doveva chiedere nuovamente a Yrsa di prendersi cura di Garmr per qualche giorno. Non che la donna non lo facesse volentieri, s’intende: Garmr era estremamente paziente con i turbolenti figli di Yrsa e Grimwald.
Era l’altra parte, quella che odiava. Il rituale. Privare la mente dall’abbraccio delle Rune. La Catena, la Gabbia, la Chiave: un destino terribile per un ex-confratello, traditore o meno.
L’uomo sospirò nuovamente. Non spettava a lui affrontare questo genere di riflessioni: lui aveva un destino da compiere e un incarico da portare a termine, e che fosse dannato se non avrebbe raggiunto entrambi gli obiettivi prefissati. L’ignoto lo chiamava e, come sempre, Rúnseggr poteva contare sulla confortevole guida della sua incrollabile fede.
Rientrò nella capanna, preceduto da un riluttante Garmr, mentre fuori i corvi continuavano a strappare brandelli di carne, guardandosi attorno con quei loro occhietti fissi e inquietanti.
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