Sabato scorso, allo spazio DAS in Via del Porto a Bologna, ci siamo calati nei panni di un migrante grazie a The Border il LARP organizzato da Chaos league. Abbiamo pensato molto a come avremmo potuto raccontarvi questa esperienza e alla fine abbiamo scelto di affidarci alle parole di chi l’ha vissuta dal vivo: il nostro personaggio.
Io sono Samos, un bambino che doveva nascondersi solo per poter leggere, un figlio che ha dovuto lasciare sua madre per avere un futuro, un uomo che grida in mezzo a tante voci inascoltate, un numero su una tuta arancione. Io sono Samos e questa è la mia storia. Nel mio paese, le persone come me non hanno diritto allo studio e così ho deciso di scappare dall’ignoranza e di raggiungere la terra promessa, o almeno provare a inseguire le immagini di quel luogo perfetto che sono arrivate sin nel mio paese.
Arrivati alla frontiera siamo entrati in uno stanzone dove guardie armate ci hanno fatto indossare una tuta arancione. Poi ci hanno bendati e messi in fila uno dietro l’altro. Era buio gli unici ricordi sono quelli degli spintoni, delle voci e degli schizzi d’acqua. Eravamo su un’imbarcazione, stretti l’uno all’altro. La mia unica sicurezza erano le spalle dello sconosciuto che avevo davanti e su cui ero ancorato saldamente durante il viaggio. Ad un tratto però quella fragile sicurezza è venuta a mancare così come la mia schiena è mancata per lo sconosciuto dietro di me. Mi sono ritrovato solo con voci che mi intimavano di seguirle. Sono stato preso e spostato finché alla fine non ci hanno fatto togliere le bende.
La luce dei faretti illuminava un altro stanzone dove bisognava superare dei controlli. Ci hanno fatto mettere nuovamente in fila senza spiegarci nulla e senza risparmiarci il loro disprezzo. Di tanto in tanto le guardie della UN/WELCOME ci prendevano da parte chiedendoci il perchè eravamo lì o da dove venivamo. Non c’era però alcuna curiosità in quelle domande, solo la paura che tra di noi ci fosse qualcuno di pericoloso o di malato. È stato qui che ho conosciuto Suli, un ragazzo della mia età che era riuscito a nascondere la sua malattia e voleva superare la frontiera proprio per farsi curare. Il nostro scambio di parole è però stato interrotto da una guardia. Potevamo parlare, ma era meglio se stavamo zitti.
Arrivato al primo controllo due uomini annoiati dietro una scrivania mi hanno fornito il Border Pass, un pezzo di carta che superati tutti i controlli mi avrebbe dato la possibilità di varcare il confine. Al momento però mi dava solo il diritto ad essere chiamato con il mio nuovo nome: AA123. Dopo avermi preso l’impronta ed essere stato schedato e fotografato ero di nuovo in fila, in attesa di essere analizzato o schernito nuovamente dall’intolleranza delle guardie.
Nella fila ognuno aveva i suoi motivi per attraversare il confine: c’era chi cercava di raggiungere i suoi genitori, chi voleva scappare da un passato oscuro, chi era stato spinto dalla carestia e chi, muovendosi nell’ombra, istigava a una rivolta contro quel governo tanto rigido. F162, o meglio, Simbar voleva fare l’infermiera e stava aiutando Rochi che aveva un braccio rotto. Una guardia le ha subito riprese e allontanate e così sono intervenuto:
Lasciala stare, quella donna ha bisogno di assistenza, non potete trattarla così. Voi avete le vostre leggi, lo capisco. Ma in tutto il mondo ci sono dei diritti umani inviolabili.
L’avevo studiato, su uno dei libri di legge che mia madre mi aveva fatto avere segretamente. Volevo diventare un avvocato ma in quel momento le mie belle parole erano servite solo a farmi diventare un candidato per la stanza rossa. Mentre ero in attesa per l’ignoto, una donna seduta continuava a ripetere ossessivamente di non entrare in quella stanza. Così mi sono opposto finché non mi hanno puntato contro una pistola e costretto ad entrare. Dopo avermi fatto sedere sulla sedia di questo piccolo tugurio lercio, mi hanno chiesto se conoscevo qualcosa a proposito di un gruppo terroristico chiamato Fratelli dell’Alleanza (FDA) e se avevo ricevuto una chiave. Non ne sapevo nulla, ma la guardia non era convinta e così mi ha infilato la testa in un secchio d’acqua per convincermi a parlare. Fortunatamente sono stato salvato da un allarme che mi ha fatto riportare nello stanzone principale.
C’era il presidente della nazione in persona che ci ripeteva quanto fosse importante la nostra collaborazione e che, se avessimo parlato, sarebbe stato più semplice ottenere la cittadinanza, proprio come se questa fosse un premio. Così un paio dei miei compagni hanno accusato l’inserviente delle pulizie di essere un membro della FDA e di aver distribuito delle chiavi, simbolo di speranza e libertà. Ci hanno fatto sdraiare a terra e dopo averci perquisiti ci hanno rispedito in fila. Ritrovata Simbar, mi sono diretto verso di lei. Era spaventata e mi disse che aveva una chiave nascosta nella scarpa. Gliela aveva data una guardia che faceva parte della resistenza. Le nostre confidenze sono però state interrotte da un agente che guardando il mio Border Pass mi disse che avevo mancato degli esami.
Mi portarono a fare un test psicologico, in cui dovevo superare delle domande a crocette, e un test medico, in cui c’erano vari esami da fare e infine prendere una pasticca di antibiotico. Una volta terminati i test i medici stropicciarono il mio Border Pass come fosse un qualunque pezzo di carta. Poco dopo ritrovai Simbar che mi sorrise, contenta che non l’avessi denunciata per la chiave. Ci misero insieme ad altre persone: una donna che continuava a pregare, dicendo che la fede ci avrebbe salvato tutti e un uomo convinto che il suo mestiere da fabbro sarebbe bastato a portarlo oltre la frontiera.
Nemmeno il tempo di conoscere i loro nomi che mi separarono nuovamente dagli altri portandomi nella stanza degli archivi, in cui riordinare cronologicamente alcuni elenchi. Provai a dirgli che questo non aveva nulla a che fare con le procedure per entrare, ma le guardie mi intimarono di finire il mio lavoro in silenzio altrimenti sarei tornato nella stanza rossa. Sulla parete, immagini televisive di quel nuovo paese mi bombardavano con un volume assordante. C’erano persone sedute su un trono che si contendevano una donna, concorrenti di varie nazionalità che si sfidavano per vincere un premio e alcune donne sedute in uno studio che piangevano per via di qualche problema con la plastica al seno.
Tornarono le guardie e mi portarono nella stanza degli interrogatori. Uomini e donne in giacca e cravatta ascoltavano annoiati le nostre motivazioni tra una notizia di calcio e una di cinema sul cellulare. Mi accoppiarono con Wensley, un contadino a cui avevano tolto la terra e che era scappato dal suo paese per via della guerra. Il nostro esaminatore ci fece diverse domande anche se non era per nulla interessato alla nostra storia: “ma quanti siete? Non finite mai?” ripeteva spesso “non sapete fare niente nemmeno voi, vero?” Non era importante chi eravamo, da dove venivamo o cosa volevamo fare. Loro erano interessati solo a quello che potevamo dargli e se lo ottenevano volevano sempre di più.
Supponiamo che io abbia solo un posto per farvi entrare. Che cosa hai tu meglio di lui? Perché dovrei far entrare proprio te?
Il mio compagno decise così di denunciare qualcuno della FDA e guardando nella stanza puntò il dito verso il tavolo dove era seduta Simbar e la sua compagna. L’esaminatore chiese a chi delle 2 si stava riferendo e io dissi a Wensley di indicare la ragazza più alta. Per lui tanto non avrebbe fatto differenza e nemmeno per l’esaminatore. Così Killian venne consegnata alle guardie e portata via mentre Wensley otteneva il suo lasciapassare. Simbar mi mostrò da lontano il suo Border Pass accettato, e poco prima di lasciare la stanza la vidi mentre le sue labbra mi lanciavano un silenzioso grazie.
Se state leggendo queste parole vuol dire che io non ce l’ho fatta, ma qualcuno dei miei compagni si e ha portato il mio racconto fino a voi. Questa è la mia storia, ma potrebbe essere quella di Suli, di Kholi, di Killian o anche di Wensley e Simbar, una storia che io ho vissuto un paio d’ore per gioco, ma che si ripete ogni giorno nella realtà.
Ognuna delle cose che avete appena letto è successa davvero, all’interno di quella narrazione collettiva che è stato The Border. Tutto quello di cui ho avuto bisogno è stata una tuta arancione, poche righe per comprendere il mio personaggio e la grande preparazione dei ragazzi di Chaos League:
Il percorso sensoriale fatto da bendato e costruito con suoni, spinte e schizzi d’acqua ha reso perfettamente l’idea del viaggio in barca e del brusco arrivo nella struttura di accoglienza. Lì si aprivano una serie di scelte ludiche su come sviluppare il gioco: c’era chi seguiva le regole, chi si ribellava, chi aiutava gli altri, chi tentava di entrare nella resistenza e tante altre possibilità in cui ho potuto constatare la bravura delle persone coinvolte, dialogando con loro in più situazioni. Ho provato l’indifferenza sulla mia pelle, ho avuto paura di entrare in una stanza e mi sono impressionato a stare dalla parte sbagliata della pistola.
Il lavoro di studio svolto per ricreare l’esperienza vissuta dal migrante, inoltre, si è avvertito in ogni situazione e anche l’ispirazione a distopie fantascientifiche come Brazil, 3% ma pure qualcosa di The Handmaid’s Tale e La Fattoria degli Animali. Il tutto all’interno di una narrazione ludica che porta a giocare, ma anche a riflettere sul proprio percorso e su quello degli altri. La spersonalizzazione, il bullismo, la perdita dei diritti, la paura verso “l’altro” sono solo alcuni dei temi che il gioco riesce a trattare in maniera profonda e intensa lasciando al giocatore la possibilità di abbandonarsi al flusso degli eventi o mettere tutto in discussione. Fino a che punto siete disposti a spingervi per entrare in un luogo che non vi vuole? Quanto siete disposti a sacrificare? Ha senso abbandonare se stessi per poter andare avanti? Interrogativi che emergono e si fanno sempre più pesanti durante tutta la durata della performance.
The Border è un LARP adatto a tutti, in cui non ci sono combattimenti, ma dove non mancano le emozioni forti. Un viaggio diverso, lontano da tutto quello a cui siamo abituati, dove indossando i panni degli “altri” capiamo qualcosa in più anche su di noi.
This post was published on 15 Ottobre 2019 9:00
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