A questo giro, l’articolo tratta di una questione molto astratta. Faremo un passo indietro per analizzare la questione preliminare: ma che cos’è che facciamo quando giochiamo a un “gioco di ruolo”? Cos’è che hanno in comune i giochi “di ruolo” rispetto agli altri? In che modo possiamo formulare una definizione valida?
Probabilmente non sarà di interesse per i tanti che preferiscono semplicemente giocare, senza farsi questo tipo di domande – e va benissimo così (a me non interessa sapere come funziona un automobile, per dire; mi basta guidarla). L’argomento, però, ultimamente sembra aver smosso parecchie discussioni sui social, mostrando che forse parecchi lettori gradirebbero un pezzo a riguardo.
Perché è importante? Per avere una migliore consapevolezza della nostra attività preferita, di quali ne siano i confini – per avere degli strumenti per dire, di fronte a un gioco, “questo è di ruolo”, “questo no”, con una posizione ragionata e coerente.
Cercherò di dare un contributo alla discussione in corso, senza pretendere di chiudere la questione una volta per tutte. In molti punti sarò sbrigativo, per ragioni di spazio – già così l’articolo è molto lungo. Vedetelo come un punto di partenza, insomma.
Utilizzerò come strumento il mio sondaggio Quali giochi sono di ruolo e quali no?, a cui hanno risposto 411 persone.
Se non avete interesse a tutte le precisazioni metodologiche preliminari, potete andare direttamente a “Ok, ma quindi alla fine cos’è un Gioco di Ruolo?“
Un primo problema riguarda il fatto che il gioco di ruolo è un oggetto sociale. Non stiamo facendo indagini sui rinoceronti o sul granito. Dovremo ritagliare dei confini che non sono già dati, saremo noi a stipulare per convenzione cosa riteniamo essenziale dell’attività del gioco di ruolo e cosa no (per la precisione non sono “dati” neanche rinoceronti e granito, ma abbiamo dei criteri più generali per classificare le specie animali e i minerali: rispettivamente prole fertile e composizione chimica. Per i giochi di ruolo dobbiamo inventare il criterio da zero).
Il secondo scoglio sta nella necessaria distinzione tra “play” e “game”. In italiano utilizziamo la stessa parola, “gioco”, per indicare due concetti molto diversi. Un conto è il gioco così com’è scritto (game), e un altro conto è la specifica giocata di Fabbio, Cacazza, Ruttolomeo e Carlona il 20 dicembre in salotto (play).
Potremmo cercare una definizione dei “game” che sono giochi di ruolo – ossia di quegli elementi minimi necessari nelle regole per qualificarli come tali. Oppure potremmo cercare una definizione dei “play” che sono giochi di ruolo – e quindi scoprire che chissà, magari la specifica partita di Monopoly che stanno giocando Fabbio e i suoi amici, interpretando magnati immobiliari, conta come gioco di ruolo.
Insomma, cerchiamo una definizione che parli dell’oggetto gioco, o dell’attività al tavolo? Sono entrambe strade percorribili, e in molti casi è possibile riformulare l’una nei termini dell’altra, ma è importante tenere a mente la distinzione ed evitare di fare confusione tra i piani.
Per formulare una definizione possiamo adoperare varie strategie. Quattro di queste verranno analizzate più avanti. Ma prima, è il caso di sgombrare il campo da due strategie che ho visto comparire con una modesta frequenza nelle discussioni online, e che si rivelano rapidamente fallimentari.
Per questa posizione, è il mercato a stabilire cosa sia un gioco di ruolo e cosa no. Non c’è un’essenza intrinseca nelle regole o nell’attività al tavolo. Se un gioco viene pubblicato con la denominazione “gioco di ruolo”, e ha un sufficiente successo commerciale, allora dovremmo considerarlo un gioco di ruolo, ed è ciò che la comunità effettivamente fa. Questo spiegherebbe come mai C’era una volta e Le Mille e Una Notte, con notevoli affinità, sono messi in categorie diverse: perché il primo è stato pubblicato come gioco di carte, e il secondo come gioco di ruolo. Stando a questa visione, ci arrovelliamo a cercare una definizione che non c’è: a posteriori ci viene da considerare come “gioco di ruolo” qualcosa perché è stato commercializzato con successo come tale.
Intendiamoci, uno può ritenere che le cose stiano proprio così. Ma ne seguirebbe che non possiamo determinare in alcun modo le caratteristiche essenziali dei GdR, che è quello che stiamo cercando di fare in questo articolo. In questo senso si tratta di una strada morta: perché chiude la possibilità dell’indagine.
Non pensavo di doverla mettere, ma ho visto difenderla e quindi forse merita una breve menzione. “Se i partecipanti pensano sia un gioco di ruolo, allora è un gioco di ruolo”. Mi limiterò a ribattere en passant: se quattro persone stanno cucinando pennette all’arrabbiata e pensano sia un gioco di ruolo, è un gioco di ruolo?
Ci sono invece grossomodo quattro grosse strategie, con varianti, che possono aiutarci a formulare una buona definizione. Non si escludono a vicenda e, anzi, possono aiutarsi l’un l’altra a coprire i limiti reciproci.
Si può partire dal capostipite di tutti i giochi di ruolo da tavolo, quello che ha fatto scuola: Dungeons & Dragons. L’idea è che se qualcosa si chiama gioco di ruolo è perché ha con D&D delle somiglianze importanti, visto che D&D ha inventato il genere (almeno per come lo conosciamo oggi).
Questa strategia è molto persuasiva, ma non può essere applicata in modo neutro. Chiaramente non vogliamo dire che un gioco deve essere proprio come Original D&D per essere un gioco di ruolo – solo Original D&D è proprio come Original D&D. Bisognerà quindi selezionare le caratteristiche che si riterranno essenziali, e tralasciare il resto. Ma come farlo? L’essere fantasy è essenziale? I dungeon sono essenziali? Il combattimento su griglia? Le classi e i livelli? Il master?
Bene o male possiamo optare per due macro-possibilità: basarci su ciò che in D&D occupa più rilevanza, oppure su ciò che aveva di nuovo che nessun altro gioco fino a quel momento faceva. Se optiamo per la prima, per esempio, potremmo pensare che sia essenziale avere un sistema di combattimento su griglia con miniature, visto che occupava una grandissima parte di Original D&D. Chi preferisce la seconda strada, però, potrebbe ribattere che in questo specifico aspetto D&D era figlio di Chainmail, e non stava proponendo qualcosa di nuovo. La novità di D&D andrebbe quindi cercata in altro.
Potremmo basarci su quello che la comunità di giochi pensa sia componente essenziale dei giochi di ruolo, al modo in cui il termine è utilizzato, e provare a rifletterci e raffinare la definizione fino ad averne una versione funzionale e coerente, che però rispetti il più possibile l’effettivo utilizzo.
Il problema di questa strategia è che c’è moltissima divergenza di opinioni in merito a cosa sia un gioco di ruolo (che si riflette in giochi come Descent, Lupus in Tabula, Lovecraftesque, D&D 4, ora ammessi ora estromessi dal novero dei GdR a seconda di chi parla).
Per aiutarci a capire che cosa D&D aveva di nuovo e unico, può aiutare quest’altra strategia. Consiste nell’osservare e analizzare che cosa si fa concretamente ai tavoli quando si gioca di ruolo, per rintracciare ciò che c’è di comune in tutti i casi, ciò che è essenziale – in contrapposizione ai giochi da tavolo non di ruolo. Il problema, qui, è che si sta già assumendo che in alcuni casi si sta giocando di ruolo e in altri no. Insomma si sta anche applicando, almeno in parte, la strategia seguente:
Questa strategia rovescia il problema: anziché avere una definizione e vedere quindi cosa rientra nei GdR e cosa no, potremmo decidere che vogliamo certi giochi dentro e altri fuori, e costruire una definizione ad hoc che “ritaglia” il confine proprio come lo volevamo.
Portata all’estremo è chiaramente scorretta – non possiamo basarci su tutti i giochi esistenti. Ed è problematica anche se usata con titoli controversi. Eviterei di ragionare in questi termini: “Voglio che La Creatura e The Quiet Year siano GdR, mentre C’era una Volta no. Che definizione posso dare che rispecchi questa divisione?”
D’altro canto, è molto proficua se utilizzata tramite i titoli su cui sono quasi tutti concordi (quindi in combinazione con la Strategia della Raffinazione). Per esempio, nel mio sondaggio i partecipanti dovevano indicare se vari giochi fossero di ruolo o meno. In alcuni casi, l’accordo è di almeno il 90% (ossia, tralasciando coloro che non conoscono il gioco, i restanti sono divisi in modo che più del 90% ha votato dicendo che è un gioco di ruolo – 4 e 5 nella scala -, oppure più del 90% ha votato dicendo che non è un gioco di ruolo – 1 e 2).
Potremmo considerarli casi abbastanza pacifici. Quindi potremmo dire che vogliamo che la nostra definizione tenga dentro, tra gli altri, D&D 5 e Apocalypse World e Fate; mentre dovrà tenere fuori Monopoly e Cluedo.
Lo so, me la sto prendendo comoda – ma in mia difesa vi avevo avvisato. È che si tratta di una questione delicata, e mi sembra giusto chiarificare gli approcci metodologici che si possono usare. Tra poco arriva la ciccia, promesso.
Prima, l’ultimissima nota di metodo: dirò quale combinazione di Strategie utilizzerò, e come – e poi passeremo a vedere un modo, che considero molto valido, con cui definire il gioco di ruolo.
Farò riferimento alla Strategia del Capostipite scegliendo di basarmi su ciò che D&D aveva di unico, che mancava nei giochi precedenti. E cercherò di rintracciare ciò che c’è di essenziale vedendo le somiglianze con giochi di ruolo non controversi (Apocalypse World e Fate) e in modo da tenere fuori Monopoly e Cluedo. Mi aiuterò con le proposte di caratteristiche essenziali date dai 411 partecipanti al sondaggio – elencherò quelle che ricorrevano almeno due volte, per lavorare su quelle. Le analizzerò cercando di capire se siano scomponibili, riducibili o meno.
Chiaramente l’obiettivo è trovare gli elementi minimi perché qualcosa sia un gioco di ruolo – anche se facesse schifo. Se qualcosa è altamente desiderabile in un GdR ma è ragionevole pensare che continui ad essere un GdR anche senza averlo, allora non è un elemento essenziale.
Senza ulteriori indugi, ecco le risposte ricorrenti almeno due volte – ho cercato di raggruppare quelle concettualmente simili:
Dato che sto cercando una definizione per il “game”, dal primo gruppo tolgo la necessità di agire in base a ciò che farebbe il personaggio, nonché l’immedesimazione. Questo riguarderà il modo in cui giocheranno i giocatori (naturalmente giochi diversi possono incentivare o meno l’immedesimazione, ma voglio limitarmi alle regole). Data la grande diffusione del giocare usando la terza persona e il discorso indiretto, inoltre, tolgo la recitazione. “Interpretare” è vago, ma alla fine riconducibile alle altre. Il modo più minimale per dire quel che rimane è che i giocatori hanno controllo, o autorità, su ciò che i personaggi pensano, dicono, fanno in modo diverso gli uni dagli altri.
Del secondo gruppo sorvolerei su “si improvvisa” perché lo trovo implicito nell’avere controllo sui personaggi. L’interagire in modo non discreto sembra importantissimo. In congiunzione con il gruppetto seguente – con il fatto che il gioco avviene in un mondo fittizio da manipolare in modo non discreto – sembra essere un tratto chiave, radicalmente differente dai semplici giochi da tavolo.
Questo è probabilmente il punto più importante. Il gioco si svolge in un mondo fittizio con eventi, personaggi, luoghi che può essere manipolato in modo “non discreto”. Ecco che se in superficie D&D e Descent sembrano simili, in realtà non potrebbero essere più diversi. Perché? Perché in Descent niente avviene in un mondo fittizio, tutto è riducibile a manipolazione di variabili discrete.
Nei dungeon di Descent ci sono porte chiuse che vanno distrutte con “prove di Forza”. Ma cambierebbe qualcosa se le immaginaste come un’arcata protetta da una Statua Guardiana che vi sfida a braccio di ferro, ossia la stessa “prova di Forza”? Il gioco rimarrebbe esattamente uguale nelle sue procedure e nel suo andamento. Porte, forza, guerrieri, mostri sono solo dei nomi e delle immagini che rappresentano valori numerici, coordinate, meccaniche e niente più. Se anche decidete di interpretare il vostro personaggio, sono vocine fini a sé stesse: il gioco è con scelte discrete, non avviene in un mondo immaginario.
In D&D cambia eccome se c’è una porta o una Statua che vuole giocare a braccio di ferro: sarebbero dei fatti veri del mondo finto. In quanto fatti veri, hanno conseguenze. Posso decidere di prendere un pezzetto di legno dalla porta. E posso provare a far adirare la statua. O anche far marcire il legno della porta. Tenerla aperta con un fermaporta.
E come Descent, anche Lupus in Tabula non ha altro che variabili discrete: si parla un sacco e ciascuno ha un “ruolo”, sì. Ma i ruoli non sono altro che una condizione di vittoria, l’appartenenza a un gruppo di giocatori, il diritto a vedere o manipolare le variabili in certi modi. Il gioco non avviene in un mondo fittizio manipolabile. Anziché contadino e lupo potete chiamarli “1” e “2”, e così via, senza perdere nulla dei meccanismi del gioco.
Per capire se c’è un mondo emergente, chiedetevi: posso sostituire ogni nome di elemento del gioco con “x”, “y”, “1”, “2”, … mantenendo intatti i reciproci rapporti, e avere un gioco che funziona come prima? Se sì, l’ambientazione è solo colore, non svolge un ruolo nelle procedure, non è manipolabile tramite il gioco e non ha ricadute sugli stati successivi.
Torniamo alle caratteristiche essenziali. Il gioco avviene tramite una conversazione, sì, ma forse possiamo darlo per implicito visto che si interviene in modo non discreto, o emergente, in un mondo narrativo. Se invece vogliamo darlo come essenziale, escludiamo giochi da 1 giocatore (come La Creatura e una modalità di Ironsworn). Darei anche per implicita la creazione di una storia o la presenza di una trama, vedendole come il prodotto necessario del fatto che ci sono eventi che accadono in un universo narrativo.
Il punto del Master è spinoso. Come negli altri, più che negli altri, sto operando una scelta controversa: non lo metto come essenziale. Perché? Perché posso ridurre “Master” all’insieme delle autorità narrative di cui dispone – gestire i PNG, le conseguenze degli eventi, impostare le scene, … e ritenere implicito che queste autorità dovranno andare a qualcuno, ma senza ritenere essenziale che si debba trattare di un unico giocatore.
La presenza di regole, di un game, è necessaria per sorreggere un impalcatura come quella che stiamo delineando. In questo modo peraltro possiamo eliminare il teatro di improvvisazione, che è play senza un game alle spalle. Dovendo trovare gli elementi minimali, eliminerei le richieste che le regole siano funzionali, modellino la realtà, ecc. Finché si sa come i giocatori possono interagire con il mondo narrativo, che ruoli ricoprono e c’è un game, c’è il minimo indispensabile.
Riguardo l’essere giochi cooperativi, con difficoltà da superare, su tempi lunghi ecc, non vedo perché andrebbero considerate caratteristiche essenziali. Così come i giochi da tavolo possono avere o meno queste caratteristiche, penso si possa variare anche sui giochi di ruolo (altrimenti bisognerebbe estromettere i giochi da one shot, quelli non basati su quests…).
Più controversa la faccenda delle condizioni di vittoria: tutte le Strategie sembrano suggerire che sia essenziale che non si vinca né si perda. Se lo riteniamo essenziale, però, ci sono delle conseguenze. Ad esempio, siamo costretti a dire che se ci fosse un gioco uguale a D&D, ma in cui alla fine della campagna si considerano vincitori i giocatori dei PG se hanno battuto il boss finale, oppure il Master se invece sono stati sconfitti, quello non è un gioco di ruolo. Nonostante tutto il resto delle procedure sia uguale e cambi solo sul finale, quando si decretano i vincitori.
Si potrebbe dire che rimane un gioco di ruolo, perché alla fine non è cambiato nulla. Qualcuno potrebbe obiettare però che il cambiamento ha totalmente alterato le dinamiche, e che ad esempio a questo punto il Master ucciderebbe immediatamente i PG con i mezzi che ha a disposizione, per vincere.
A questo risponderei che al massimo questo lo renderebbe un cattivo gioco di ruolo, ma comunque un gioco di ruolo. L’essenziale mi sembra rimasto. E si possono pensare giochi con ruoli, universi narrativi ecc in cui si vinca o si perda (d’altronde esistono).
La Strategia usata per decidere di volta in volta se qualcosa è essenziale, quindi, si può generalizzare così:
Un modo per valutare se qualcosa debba contare come essenziale o meno, è provare a immaginare di aggiungerlo o toglierlo, come abbiamo appena fatto – ma lasciando il resto il più possibile simile. Così possiamo chiedere a chi ritiene i dadi essenziali: immagina un gioco uguale a D&D ma in cui invece dei dadi si usino carte. Diresti che non è più un gioco di ruolo?
O immaginiamo che in D&D il ruolo del Master possa essere preso da chi spende un “Punto trama” per farlo. Diremmo che smette di essere un gioco di ruolo?
È ciò che ho fatto lungo l’analisi delle varie proposte: immaginiamo di toglierle o aggiungerle da un gioco riconosciuto come di ruolo. Cosa ne traiamo? Continuiamo a volerlo considerare di ruolo o no?
Dopo questo lavoro di analisi, possiamo quindi arrivare a una formulazione:
Un gioco di ruolo è un gioco in cui ci sono regole che stabiliscono le modalità con cui i giocatori possono manipolare in modo non discreto un mondo fittizio, i cui avvenimenti sono veri nel contesto di quel mondo, hanno conseguenze sulle scelte successive nel gioco e sugli avvenimenti futuri del mondo fittizio. Inoltre i giocatori hanno controllo su specifici personaggi.
Una versione più snella ma equivalente è quella proposta da Francesco Rugerfred Sedda, uno studioso di game design:
Un gioco di ruolo è un gioco nel quale il giocatore ricopre uno o più ruoli all’interno di un universo narrativo ed è autorizzato a influenzare quell’universo narrativo in modo emergente.
È quindi mia ferma convinzione che la presenza di classi, livelli, poteri, armi, costruzione di un personaggio ecc. di per sé, da soli, non rendano un gioco “più di ruolo”. Non è lì che si trovano i tratti essenziali, tant’è che sono caratteristiche che si possono avere anche in giochi da tavolo o in videogiochi. La chiave sta nel ricoprire ruoli in mondi fittizi in cui si può intervenire in modo emergente.
Una volta selezionate le caratteristiche essenziali, possiamo vedere come la nostra definizione si applica a una serie di giochi che fungono da ottimi “casi studio” per via della loro combinazione controversa di proprietà. Io lo farò con la mia definizione, ma se seguendo i vari passaggi dell’articolo ne avete formulata una vostra, grazie al grafico potrete valutare al volo che cosa siete “vincolati” a riconoscere o a escludere dai giochi di ruolo.
Se l’esito non vi piace, potete riflettere sul perché, e se ritenete ci siano buone ragioni per tener dentro o fuori un qualche gioco, pensate a cosa c’è nella definizione che non vi torna, e provate a riformularla in modo che funzioni.
Nella tabella le celle vuote indicano che potrebbe essere in entrambi i modi, oppure che non si può applicare.
La 3 e la 4 hanno tra parentesi (P), a indicare che a differenza delle altre voci riguardano il play, e non il game. Questo le rende particolarmente spinose, e le ho lasciate quasi sempre vuote, fatto salvo dove ci si può ragionevolmente aspettare che la larga misura delle giocate di quel gioco siano in un certo modo.
Per la definizione che abbiamo delineato qui, sono giochi di ruolo quelli in cui c’è la spunta su “Si ricopre un ruolo”, “Universo narrativo emergente” e “Regole”.
È interessante notare che Sì, Oscuro Signore può essere giocato con universo narrativo emergente oppure no. Vedetela così: di base, il gioco non avviene davvero in un universo narrativo – non è un gioco di infimi servitori che cercano di convincere il proprio Signore a risparmiarli. È un gioco di giocatori che cercano di persuadere un altro giocatore con una storia adatta, pur se raccontata in prima persona. Ma il confine è sottile, e lo si può giocare con l’enfasi sulla presenza dell’universo narrativo fittizio e gli avvenimenti che lo popolano.
C’era una volta è un altro esempio controverso relativamente all’universo narrativo emergente. Per quanto ci si debba attenere al contesto, a quanto detto prima, ecc, si potrebbe formulare un’obiezione. Tutte le regole sono a livello verbale, del racconto: puoi venire interrotto se pronunci “mare” e qualcuno ha la relativa carta – non solo se nell’universo narrativo c’è il mare, ma anche se dici “si cacciò in un mare di guai”.
Sembra ci sia una differenza, come se il focus fosse più sull’atto del raccontare che non degli avvenimenti. Sicuramente merita un ulteriore approfondimento. (In ogni caso, per la nostra definizione C’era una volta non è di ruolo perché non si ricoprono ruoli).
Alla fine di questo lungo, e spero non troppo tedioso viaggio, cosa possiamo concludere? Sicuramente che tentare di definire cosa sia un “gioco di ruolo” mostra insidie dietro ogni angolo, e non si può pervenire a una risposta univoca e oggettiva.
D’altro canto questo non significa che siano tutte uguali: ho cercato di mostrare che le varie strategie hanno dei pro e dei contro, dei limiti oltre i quali è discutibile utilizzarle, delle modeste ragioni che si possono addurre a sostegno o contro una certa scelta.
Per parte mia, sono ancora molto indeciso sulla questione delle condizioni di vittoria, con cui potrebbe venire estromesso Le Mille e una Notte, e sul numero di giocatori, che potrebbe squalificare La Creatura. Ma ho dubbi anche sulla necessità del ricoprire un ruolo, che potrebbe far rientrare sia C’era una volta che The Quiet Year.
Quel che è certo è che tutto questo discorso non serve per discriminare tra giochi belli e brutti: apprezzo pressoché tutti i titoli elencati nella tabella, quale più quale meno, e questo non cambierebbe se cambiassi la mia definizione di gioco di ruolo.
Serve semplicemente per fare un po’ di chiarezza nella discussione che imperversa sui social, e proporre un po’ di metodi, ragionamenti e problematizzare alcune questioni che rischiano di venire prese sottogamba.
E ora… che la discussione continui, si spera più costruttiva, metodologicamente avvertita e serena.
This post was published on 21 Dicembre 2018 11:30
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