Intervista doppia a Ron Edwards e Paul Czege

Ron Edwards e Paul Czege, due dei più influenti game designer di giochi di ruolo indipendenti, erano ospiti al Lucca Comics 2018, e li abbiamo intervistati.
Ron Edwards e Paul Czege, due dei più influenti game designer di giochi di ruolo indipendenti, erano ospiti al Lucca Comics 2018, e li abbiamo intervistati.

Quest’anno al Lucca Comics & Games erano presenti, come ospiti, due dei maggiori game designer del panorama dei giochi di ruolo indipendenti: Ron Edwards e Paul Czege. Ron è l’autore, tra gli altri, di Sorcerer e Trollbabe – e si può dire che sia stato colui che ha dato il via a tutto il filone dei GdR non tradizionali, essendo fondatore di The Forge. Paul è noto per La Mia Vita Col Padrone, Bacchanalia e il recentissimo Il Silenzio dei Minotauri (pubblicato in italiano proprio a questa Lucca).

A Lucca hanno tenuto dei seminari e giocato demo con chiunque desiderasse, all’Indie Palace GdR. Abbiamo avuto l’opportunità di conoscerli meglio e far loro qualche domanda. Hanno inoltre proposto di pubblicare anche le registrazioni degli audio, una sorta di “A bordo coi game designer“, visto che l’intervista è avvenuta in auto e con il navigatore a interrompere ogni due per tre. Buona lettura!

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Foto scattata in auto durante l’intervista.

Vorrei iniziare chiedendovi qualcosa sul vostro processo creativo, sul modo in cui progettate giochi di ruolo.

PAUL: Il mio personale processo creativo è basato sul trovare l’ispirazione. Ci sono cose che le persone sanno riguardo come va il mondo, come funzionano le relazioni, cos’è importante nella vita. Se entri in contatto con questa dimensione, in te stesso, ciò renderà autentica la tua arte. Mi ispiro a un libro scritto da Julia Cameron, La Via dell’Artista, che suggerisce di scrivere tre pagine di flusso di coscienza ogni giorno. Le chiama le “pagine del mattino“. Io lo faccio e aiuta a rendere forte il tuo inconscio più autentico, a resistere al proprio pensiero critico, a dare l’energia per completare i progetti. Ciascun gioco che abbia pubblicato è spuntato fuori da idee in queste pagine di flusso di coscienza.

RON: Il mio processo creativo ha qualcosa in comune con quello di Paul, ma in un modo meno disciplinato. Ho dei quaderni di appunti che temo chiunque li veda giurerebbe appartengano a un serial killer. Ormai saranno più di un centinaio, ho fatto così per quasi tutta la mia vita. Sono pieni di annotazioni come numeri di telefono e liste della spesa, ma contengono anche i miei progetti sui giochi di ruolo. Essendo indisciplinato, però, si trovano “a sandwhich” in mezzo ad altre annotazioni ridicole. È molto come un flusso di coscienza da una prospettiva più ampia, guardando a tutta la mia vita – anziché essere in momenti dedicati.

Inoltre, traggo considerazioni dal giocare. Posso rintracciare l’origine di tutti i miei giochi (con una importante eccezione) a momenti in gioco in cui ho deciso di progettare qualcosa che andasse contro, oppure rinforzasse, qualcosa che stavo facendo. Mi capita di notare, giocando, una procedura che non viene dalle regole del gioco, e di dire “Oh, questa è interessante. E se fosse la procedura principale di un gioco?“, e da lì in poi mi metto a lavorarci. L’eccezione riguarda quattro piccoli proto-giochi riguardo la religione, in cui ho deliberatamente cercato di scardinare qualsiasi assunzione ed esperienza riguardo i giochi di ruolo, per vedere cosa ne sarebbe uscito fuori e come i gruppi l’avrebbero giocato.

Cosa pensate manchi nell’attuale panorama internazionale dei giochi di ruolo?

RON: Non so se si possa parlare di scena internazionale. Per me ha più senso parlare localmente, e l’interazione tra le realtà locali va analizzata poi separatamente. Ti dirò cosa manca nella scena italiana: ho visto moltissimi lavori eccellenti, ben pensati, godibili. Lungo gli anni ho visto tante persone scrivere i propri, ottimi giochi. Però, ogni volta che arrivo qui, vedo tutti presi dalle ultime novità appena tradotte dall’America. E mi viene da dire, sempre: “Lasciamo stare queste stupidaggini: cos’è che avete voi, nel vostro zaino?”

Il design italiano è avanti anni luce, è incredibile quanto vada a fondo nel gestire il dialogo al tavolo, il gioco, etc. Ed ecco cos’è che manca: come fate a farli pubblicare? Avete delle case editrici che si fregiano del titolo di “indipendenti”, “alternative”, ma alla fine sono case editrici, che ottengono le licenze, fanno marketing, fanno distribuzione. Come fate a pubblicare i vostri lavori senza subordinarvi a qualcuno coinvolto in questi affari?

E se lo fate per conto vostro, auto-pubblicandovi, come fate a competere con queste compagnie più grandi che hanno già la loro visibilità e il loro spazio? Ed ecco cosa manca al momento in Italia e che dovrebbe essere corretto. Non dovrebbero essere le case editrici a fare da sostegno ai giochi di ruolo indipendenti.

PAUL: Risponderò da un’angolazione diversa. Quando sento che c’è qualcosa che manca nel panorama ludico, che sia statunitense, internazionale o altro… se lo sento abbastanza fortemente, allora mi influenzerà nei progetti a cui lavoro. Quando ho progettato La Mia Vita Col Padrone è stato per via di svariate influenze. Una di queste era che sentivo la mancanza di meccaniche di gioco che potessero dare vita a un arco narrativo senza railroading. Gli esseri umani hanno un senso di comprensione delle storie – se dai loro un’impalcatura che permetta di aggiungerci il drama, otterrai qualcosa che somiglia più a una storia che a una narrazione che va avanti e sembra non avere una struttura.

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Ne Il Silenzio dei Minotauri, quando c’è una situazione incerta o di conflitto si consulta l’Urna. Il GM mette dei token “negativi” senza far sapere quanti, ma facendo sentire il rumore scuotendo il sacchetto. Il giocatore quindi inserisce i suoi token, di quantità e tipologia dovute a cosa vuole ottenere e quanto ci tiene. Estrarrà poi quattro token, con cui formerà combinazioni che danno certi esiti.

Anche per Il Silenzio dei Minotauri è successa una cosa simile. L’ho progettato in un momento in cui le energie principali del design indipendente erano focalizzate nel dare vita a giochi collaborativi, in cui le autorità del Game Master sono distribuite. Ma se torni indietro all’inizio del nostro hobby, la gioia di fare il Game Master era una delle sue componenti. Volevo progettare un gioco che desse alle persone un mondo di cui potessero impossessarsi, e sentire di poterlo estendere, renderlo proprio, divertircisi. Non penso si possa tornare indietro e ritrovare la gioia di fare il Game Master proprio come era nel 1976. Penso però che si possa creare un nuovo senso di gioia nel fare il Game Master, e penso che il mio gioco dia le basi per farlo.

Se penso a quello che mi passa per la testa in questo momento, riguardo ciò che credo manchi, e che mi sta ispirando… vediamo. Direi che il mondo ha bisogno di speranza, ottimismo, e di scoprire di nuovo come credere nelle persone. Ci sono molti giochi oscuri, gritty. Il mio progetto attuale, Traversers, riguarda un’apocalisse in cui le conseguenze sono buone per l’umanità, in cui creiamo un mondo migliore, e una cultura migliore.

Una domanda più breve. Qual è il vostro gioco di ruolo preferito, e a quale avete giocato di più? Non potete nominare giochi vostri o dell’altro.

RON: Quello che ho giocato maggiormente è Champions, nello specifico la terza edizione. Per parecchi, parecchi anni, con centinaia di persone diverse. Per quanto riguarda il preferito, non sono proprio il tipo di persona da avere un gioco preferito, ma posso dare una manciata di titoli. I preferiti includono The Pool, The Fantasy Trip dei tardi anni ’70. Oh, e molta parte di RuneQuest dello stesso periodo – in particolare il libro Cults of Terror. Dopo questa intervista sicuramente mi verranno in mente un sacco di altri titoli che avrei dovuto includere, ma è un buon inizio.

PAUL: Quello che ho giocato di più è senza dubbio AD&D prima edizione, anni fa. Gioco preferito? Ne dirò uno solo, ma spiegherò perché è il mio preferito. Penso che i giochi che sembra ci parlino abbiano un enorme impatto su di noi. Nel mio caso mi riferisco a La Creatura. È un gioco introspettivo, un gioco in cui bisogna tenere un diario. Giocarlo giorno dopo giorno, per ventun giorni, ha demolito il modo in cui penso a me stesso, e mi ha costretto a ricostruire il modo in cui mi vedo.

Cosa pensate sia ancora valido del Big Model e cosa invece è superato, e verrebbe sviluppato diversamente se fosse fatto oggi?

[Nota: il Big Model è una teoria per analizzare e descrivere le varie componenti, procedure e peculiarità dei giochi di ruolo. È stata sviluppata sul forum The Forge di Ron Edwards lungo anni di discussioni basate sulle giocate concrete.]

RON: Mi sa che tocca rispondere a me per primo su questa. È tutto in bella mostra sul mio sito in vari video brevi. Non è una domanda oscura o difficile, e le risposte sono estremamente accessibili. E per chiunque stia ascoltando e pensa ci siano in ballo partigianerie, atti di lesa maestà o di lealtà, ecc: iniziate a guardare le cose come stanno, c***o. Pensate con linguaggio chiaro. Se dovesse interessarvi quello che penso, guardate i video chiamati phenomenology. Non ho nient’altro da dire. La prima cosa da fare è smettere di rendere tutti questi discorsi complicati e stupidi.

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PAUL: L’impatto importante che il Big Model ha avuto su di me come designer sta nell’idea che le persone hanno diversi gusti di gioco. Non c’è un singolo tipo di obiettivo o di esperienza, giocando. Mi ci sono imbattuto in un momento storico in cui tutti i giochi pubblicati erano molto simili tra loro come tipo di esperienza. Il Big Model mi ha sbloccato come artista, dicendomi che potevo creare giochi per persone con i gusti più vari, e aiutandomi a realizzare che anche io avevo preferenze diverse. Ho capito che c’era un’intera terra inesplorata di esperienze possibili. Non sono mai stato un teorico del Big Model, comunque.

L’altro aspetto che mi ha colpito è stato che le discussioni giravano attorno al gioco giocato (actual play). Era una cultura in cui le persone cercavano di spingere al limite ciò che le esperienze di gioco potevano dare, e testavano i giochi degli altri, e imparavano cose su come gli umani collaborano gli uni con gli altri, e come le storie possono essere create, e comunicando ciò che imparavano ad altre persone tramite il loro design o postando sul forum. E penso che questa cultura è ciò che manca attualmente nelle discussioni teoriche sul Big Model. Se c’è qualcosa da sistemare nella teoria, l’unico modo per scoprirlo è tramite giocate concrete per trovarle, e non vedo più questo tipo di approccio.

RON: Ai tempi di The Forge era così che andava. Se volevi parlare di teoria, dovevi farlo tramite esempi di gioco concreto, parlando di vere esperienze di gioco. Quello che Paul dice mancare, c’è ancora, ma in meandri piccini picciò nascosti su internet. È ancora presente, per chiunque voglia lasciar perdere questa cosa ridicola del “oh io sono uno story gamer”, “oh io sono old school” e tutto il non-sense di questo genere.

Cosa state apprezzando di più, e cosa di meno, riguardo la vostra permanenza in Italia?

PAUL: Ho intrattenuto ottime conversazioni con giocatori italiani. Riguardo i giochi che stanno progettando, riguardo il giocare, e il giocare coi bambini… è stato fantastico. Ho giocato ottime demo. Apprezzo molto che i giocatori italiani si siedano per una demo aperti all’esperienza che il gioco vuole offrire. A volte le persone vanno alle demo con pregiudizi, aspettative, ma non ho visto nulla di tutto questo. La cosa che mi è piaciuta di meno è probabilmente l’incessante pioggia che mi inzuppa costantemente le scarpe.

RON: Confermo tutto quello che ha detto Paul sui giocatori. Un altro aspetto che vorrei menzionare è molto personale: sono 18 mesi che non vivo più in USA [bensì in Svezia, ndA], e quindi ora mi sento un vicino. È bello visitare l’italia dallo stesso fuso orario, poter comparire qui piuttosto facilmente. È bello non sentire un salto culturale grosso come era in passato. Mi sento più a casa che prima, e amo questa sensazione. Voglio concentrarmi sul poter venire in Italia più spesso.

Ciò che mi è piaciuto di meno… be’ non sono il tipo di persona che si fa queste liste in testa. Chi legge probabilmente penserà che rispondo solo con cose legate a me stesso. È stata una fiera con moltissimi eventi, e ciascuno faceva cose diverse e abbiamo sempre dovuto aspettare tutti gli altri, andare dove andavano gli altri. Un po’ come nei film dei Beatles, in cui la maggior parte del tempo era dedicata al correre di qua e di là. Sono un po’ stremato per via di questo. Ma nulla riguardo ciò che ho fatto io o gli altri mi è dispiaciuto – non ho nulla da ridire su questo.

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