Diario del dott. Flammini 17 Novembre 1957 – Parte I
Mi svegliai di buon mattino, fu Amos in persona a venire a prendermi . Era privo di armi e armatura, cosa curiosa per un uomo come lui. Ha preteso mi vestissi in fretta, aggiungendo che presto sarei stato a colloquio dal Gran Maestro.
Camminando per i freddi corridoi compresi finalmente che l’Inverno era ormai prossimo. Se ne vedevano già le avvisaglie: sarebbe stato rigido. Già le foglie erano cadute sebbene qualcuna ancora timorosa esitasse a riversarsi a terra forse nella vacua speranza di sopravvivere al fine di stagione. Un po’ come noi, che ogni giorno ci trasciniamo sino al nostro letto con la speranza in cuore di svegliarci con l’alba nuova.
Giungemmo in quella che riconobbi essere la stanza di Germano. Al suo interno Renato era li ad attenderci e non esitò un istante a cominciare il suo discorso.
Era avido di conoscenza: da dove provenissi, chi io fossi. Tutto doveva essere rivelato per poter disporre di tutti i pezzi del puzzle di cui io sembravo essere quello più complesso da posizionare. Necessitava di un quadro chiaro dell’intera vicenda ma la mia versione dei fatti continuava ad esser sempre la stessa.
Volle anche approfondire maggiormente cosa io esattamente fossi in grado di fare e spiegai di esser medico e di star cercando di sintetizzare in quei giorni proprio un qualcosa che potesse aiutasse il Maestro Germano. Per la prima volta vidi lo stupore nei suoi occhi e della sua volontà di voler comprendere i motivi che mi spingessero a compiere un simile atto altruista.
Raccontai di come mi fossi adoperato con l’Erborista per recuperare materiali e l’attrezzature utili; di quando ci recammo dal vecchio uomo nel sotterraneo e di tal Laffi, il cui nome è usato quale “memento mori” da coloro che credo sian membri di una società segreta; e lui rimase per tutto il tempo interessato e rapito dal mio lungo monologo.
Poi fu il suo turno di raccontare una storia, una che riguardava questa volta un Alchimista e non più un Erborista: la storia di Laffi, collaboratore della Chiesa, ucciso in modo uguale al Burattinaio.
Mi spiegò come molti trovassero singolare che la scia di cadaveri che conduceva alla morte di Laffi indirizzasse verso la Potestas Diaboli – la setta di cui fui accusato esser membro – e di come ancora una volta tutto sembrasse ruotare intorno a me.
Mi colse un gran mal di testa e solo allora mi resi conto che la mia fasciatura, quella che usavo per coprire la mano mortificata, era in fiamme. Terrorizzato la agitai in aria come un forsennato, nel vano tentativo di spegnerla e come un folle vmi avventai sulla caraffa sul comò per vuotarne il contenuto su di essa. La fiamma si spense.
Solo dopo notai come entrambi – Renato ed Amos – mi guardassero esterrefatti, chiedendomi che cosa mi fosse preso.
Nulla, per loro non era avvenuto nulla.
Ero risultato quale in pazzo che alcun motivo aveva di spaventarsi.
Ho riflettuto a lungo se scrivere questa pagina o meno perché non credo di essere più in grado di distinguere il reale dal non reale e mio timore è che ormai abbia riempito questo diario di avvenimenti mai successi – che risiedono solo nella mia mente – e di non essere più in grado di distinguerli, proprio come quello di cui leggo esser avvenuto qualche giorno fa.
Forse sono solamente in coma a causa di un incidente e tutto questo è il delirio che si sviluppa nella mia mente martoriata e quindi non non sono pazzo ma solo incosciente.
No. No. Io sono lucido! Ne sono certo.
Ma allora, forse che io sia riuscito a privarmi di quelle lenti blu di cui tanto parla Kant e che ora risulti impossibilitato a svegliarmi da questo incubo ad occhi BEN aperti?
Dio, aiutami tu.
<-Capitolo XXXVI – Capitolo XXXVIII->
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